La festa, rendendo possibile la percezione collettiva della discontinuità del tempo rispetto alla durata del tempo individuale, introduce senso e ordine nel fluire caotico e indifferenziato degli eventi
Levi-Strauss
Persistenze preistoriche
Credo che la Sardegna sia una fra le regioni che più conservano le tradizioni in Occidente, soprattutto per quanto riguarda le feste.
Ancora oggi è possibile osservare la singolarità delle feste sarde e coglierne il particolare timbro e le analogie che le lega ai miti ancestrali di ogni continente.
La Sartiglia e le possibili connessioni astronomiche
La Sartiglia è una corsa alla stella che si corre l’ultima domenica e martedì di carnevale ad Oristano, dove carnevale e Sartiglia sono praticamente sinonimi. È una delle più antiche manifestazioni equestri, la tradizione vuole che le sue origini affondino negli antichi tornei cavallereschi militari. Essa infatti consiste nel tentativo dei cavalieri di centrare il bersaglio lanciandosi al galoppo con la spada o lo stocco teso nel tentativo di infilzare la stella forata appesa ad un nastro verde.
Ma procediamo con ordine
I Momenti
La Candelora
Il 2 febbraio, festività della Candelora, avviene il primo atto ufficiale in vista dell’evento. Viene prescelto Su Componidori, il capo corsa a cui tutti i cavalieri partecipanti saranno sottoposti. Egli rappresenta la figura più interessante di tutta la Sartiglia.
La vestizione
Il giorno designato per la corsa si raggiunge il culmine con la vestizione del prescelto che, attraverso antichi e rigorosi rituali ricchi di sacralità, diventa un semidio sceso tra i mortali per dare loro buona fortuna e mandare via gli spiriti maligni. Su Componidori, vestito con in capo un cilindro nero, il velo e una maschera che gli conferisce tratti androgini, sale sul cavallo, da quel momento, su Componidorinon può più toccare terra (non podit ponnî pei in terra). Qualunque contatto diretto con la Grande Madre deve essere evitato perché egli conservi la purezza necessaria a gareggiare e vincere.
Prima di uscire all’aperto gli viene consegnata sa pippia de maiu,un doppio mazzo di violette simbolo della primavera che sta per arrivare.
La Corsa alla Stella
Ultimata la vestizione su Componidori, preceduto da un corteo in abito tradizionale sardo, dai membri del gremio e da tamburini e trombettieri, unitamente ai suoi luogotenenti su Segundu Cumponi e su Tertzu Cumponi, si mette alla testa di altri cavalieri mascherati, con cavalli riccamente bardati, e si dirige verso la via Duomo.
Qui, dopo aver benedetto la folla che lo attende, consegna sa pippia de maju a s’Oberaju Majore per riceverne le spade con cui effettuerà la cerimonia dell’incrocio delle spade: al di sotto della stella che è stata appesa sul percorso, per tre volte incrocia la propria spada con quella de su Segundu con evidente valore propiziatorio.
Sarà poi lui stesso a poter tentare per primo la sorte, lanciandosi al galoppo con la spada tesa nel tentativo di infilzare la stella.
Il capo corsa concede via via la spada ad altri cavalieri, in segno di fiducia o di sfida nei confronti della loro abilità. Quanti e quali cavalieri avranno l’onore e l’onere di calcare la pista è sua esclusiva decisione. Una volta soddisfatto del numero di stelle colte per il proprio gremio e per la città, ritorna sul percorso per restituire le spade a s’Oberaju Majore e ricevere su stoccu col quale tenterà ancora una volta di cogliere la Stella. Potrà concedere di sfidare la fortuna con quest’arma anche ai suoi luogotenenti.
La Benedizione – Sa remada
Conclusa la corsa con su stoccu, con in mano ancora una volta sa pippia de maju, Su componidori lancia il cavallo al galoppo e, completamente sdraiato su di esso, benedirà la folla con ampi gesti: è sa remada, con la quale dichiara conclusa la corsa alla stella.
Metafora astronomica – calendariale
Interessante a questo punto ipotizzare una dimensione astronomica della corsa alla stella.
Su stoccu, il bastone con cui Su Componidori in qualità di semidio cerca di infilzare la stella, potrebbe aver rappresentato, almeno inizialmente, l’asse terrestre che punta sempre verso la Stella Polare, l’asse da cui dipendono le stagioni e, più in generale, lo scorrere del tempo?
La Precessione degli Equinozi
Ipparco, nel 127 a.C, la chiamò così, ma vi sono buone ragioni per ritenere che in realtà la sua fosse una riscoperta, cioè che lo strano moto dell’asse terrestre fosse già noto un migliaio di anni prima e che su di esso l’Età Arcaica avesse basato il suo computo del tempo a lungo termine, ci informano Giorgio de Santillana ed Hertha von Dechend ne il Mulino di Amleto.
“Oggi, la nostra idea della Precessione è quella lieve, e per di più irrilevante, inclinazione del globo… Oggi, la Precessione è un fatto assodato, immune da ogni influenza del continuum spazio–temporale. È solo una noiosa complicazione che non ha ormai alcuna attinenza alle nostre vicende. Una volta, invece, era l’unico maestoso moto secolare che i nostri antenati potevano tenere presente quando ricercavano un vasto ciclo che interessasse l’intera umanità… Essi credevano che lo slittamento del Sole lungo il punto equinoziale incidesse sulla struttura del cosmo e determinasse una successione di età del mondo poste sotto segni zodiacali diversi. Avevano trovato un Grande Piolo a cui appendere le loro riflessioni sul tempo cosmico, il quale recava tutte le cose nell’ordine prescritto.”
Come funziona
Tutti sappiamo che l’asse di rotazione terrestre è inclinato di circa 23,5° rispetto all’asse di rotazione del Sole.
I popoli antichi, osservando con molta cura e attenzione il moto dei corpi celesti, si accorsero di una imprecisione, un fenomeno che oggi chiamiamo Precessioni degli Equinozi, quel movimento molto lento della Terra, che fa cambiare l’orientamento del suo asse di rotazione come quello di una trottola.
A causa di questo moto i poli celesti si spostano, e la stella che indica il nord non è sempre la stessa, cambia. Nel 3000 a.C., l’asse terrestre puntava sulla stella Thuban nella costellazione del Dragone.
Oggi invece l’asse terrestre punta a quella che chiamiamo Stella Polare o Polaris, nella costellazione dell’Orsa minore. Lentamente il nord celeste si allontanerà sempre di più da Polaris e tra circa 14.000 anni, invece, toccherà alla brillantissima Vega, nella costellazione della Lira, assumere il ruolo di stella polare.
S’Ardia, un’altra metafora astronomica?
Uno scritto anonimo, databile intorno al 1860, dal titolo Di alcuni giochi equestri/in feste popolari/della Sardegna/e specialmente della Sartilla di Oristano, custodito presso la Biblioteca Universitaria di Cagliari con annotazioni autografe del canonico Giovanni Spano, riporta testualmente
“… Altre due magnifiche feste sono quelle di San Leonardo a Santu Lussurgiu, e di San Costantino a Sedilo, nelle quali si fanno giochi equestri, cui danno il nome di Ardie, e che riescono di sorprendente effetto a vedersi …”.
Ci sono parecchie corse denominate S’Ardia, a Sindia, a Santu Lussurgio e a Sedilo, il rituale, tendenzialmente identico.
L’Ardia di San Costantino
L’Ardia di San Costantino è una manifestazione tradizionale che si tiene a Sedilo, in Sardegna, il 6 e 7 luglio di ogni anno. Il vocabolo ardia deriva dal verbo bardiare che significa “proteggere, fare la guardia“.
La corsa
Ha inizio nel momento in cui i tre capicorsa, radunatisi insieme agli altri cavalieri innanzi alla casa parrocchiale, ricevono dal sacerdote gli stendardi benedetti (Sas Pandelas): il primo di colore giallo oro, il secondo rosso, il terzo bianco.
Il parroco stesso, alcuni mesi prima, designa, desumendolo da un registro conservato in parrocchia secondo un ordine cronologico d’iscrizione, il nome del capocorsa (prima pandela), al quale spetta il compito di guidare l’Ardia. Egli viene affiancato in questo incarico da altri due cavalieri da lui scelti (sa segunda e sa terza pandela). A questi ultimi ed alle tre scorte (sas iscortas) è affidato il compito di impedire che il capocorsa venga raggiunto e superato dai restanti cavalieri, simboleggianti l’esercito di Massenzio, ossia la paganità.
I tre cavalieri utilizzano o possono utilizzare, come strumento in difesa di Costantino, gli acuminati stendardi evitando di usarli di punta mentre le scorte dispongono ognuno di un bastone (delle dimensioni del manico di un piccone) rivestiti di un tessuto rosso porpora.
Il superamento de sa prima pandela rappresenterebbe la vittoria del paganesimo sul cristianesimo, oltre che un terribile affronto per gli alfieri.
Al termine della consegna degli stendardi, i cavalieri, guidati dal parroco e dal sindaco ed accompagnati da una banda musicale e dai fucilieri, che costituiscono un rumoroso ed efficiente servizio d’ordine e annunciano l’arrivo del corteo, attraversando le vie principali del paese si dirigono verso il santuario, situato nelle campagne del paese, a breve distanza dal centro abitato.
Giunti a su Frontigheddu, un poggio sovrastante la strada che conduce all’arco d’ingresso del santuario, i partecipanti ricevono una ennesima benedizione dal parroco. Mentre le tre scorte faticano a tenere ad una certa distanza dalle tre pandelas i potenziali inseguitori (in genere in numero da 60 a 90) sa prima controlla la situazione e, dal momento in cui la triade delle autorità a cavallo devia dal percorso principale, è libera di spronare la cavalcatura e partire verso la chiesa attraverso l’arco seguita dai due compagni e dal resto dei cavalieri, non possono più essere trattenuti dai legni delle scorte.
Con un percorso dapprima sassoso e in ripida discesa, poi costretto nell’arco di San Costantino, un tempo più stretto e lungo, più obliquo e attraversato da una soglia rilevata (tutti impedimenti rimossi nel fondamentale rifacimento novecentesco dell’ing. Giovanni Costantino Depalmas) la polverosa colonna raggiunge al galoppo il santuario; poi, lentamente, vi compie intorno un numero imprecisato di giri in senso orario che, generalmente, varia da cinque a sette ma può arrivare anche a nove o undici.
I cavalieri, come sempre al volere della prima bandiera, si precipitano indi verso sa muredda, un muretto circolare al centro del quale si trova una croce, effettuando anche qui un certo numero di giri in senso orario e poi antiorario; l’inversione, alquanto spettacolare e imposta dalle scorte ai recalcitranti inseguitori, serve a riprendere il verso adatto per affrontare l’ultima salita di galoppo, verso la chiesa, ove la parte più spettacolare dell’Ardia si conclude.
Dopo la corsa
Dopo la celebrazione della Messa l’intero corteo dei cavalieri, passando per un secondo arco del muro di cinta del santuario, come ultimo atto dell’Ardia, si ricompone a su Frontigheddu per poi dirigersi verso il paese e raggiungere la casa del parroco, dove ha luogo la riconsegna degli stendardi.
L’uscita dall’arco avviene in genere per coppie o piccoli gruppi di cavalieri che si sfidano in crepuscolari gare di velocità, particolarmente apprezzate dal pubblico dei fedeli, fino alla ripida salita di su Frontigheddu.
Tutta la cerimonia si ripete la mattina seguente, in genere in una atmosfera più intima e raccolta. Il giorno dell’ottava, infine, si svolge, con lo stesso rituale dell’Ardia a cavallo, l’Ardia a piedi, alla quale partecipano un gran numero di giovani e i cui capicorsa e scorte sono scelti con le stesse procedure di cui sopra.
È possibile che anche S’Ardia abbia radici ancestrali nell’osservazione dei moti celesti, cioè che sia legata a ricordi antecedenti la battaglia tra Costantino I (localmente chiamato Santu Antinu) e Massenzio, usurpatore a Roma, nella battaglia del 312 d.C di Ponte Milvio?
Proviamo ad indagare.
I quattro pilastri della terra
Sicuramente l’Ardia attualmente risente di influenze cattoliche.
Non bisogna dimenticare, però, le arcaiche concezioni cosmografiche, la scienza perduta, immensamente raffinata che muoveva l’universo, se si vuole cercare di comprendere i significati delle tradizioni.
Ecco allora assumere una grande importanza i quattro punti essenziali che dominano le quattro stagioni dell’anno: nella liturgia della chiesa essi sono i quattuor tempora contraddistinti da astinenze particolari, che corrispondono ai due solstizi e ai due equinozi.
Questi quattro punti costituivano i quattro pilastri o angoli della Terra.
Ma per “Terra” s’intendeva anche il cielo soprastante e il tutto era perciò quadrangolare.
Giano, il Dio degli inizi del Tempo, dei Passaggi e dei Cardini
È giunto a questo punto il momento di introdurre una divinità molto particolare, ce la presenta Felice Vinci nel suo ultimo lavoro, i Misteri della Civiltà Megalitica, con un bastone in una mano e le chiavi nell’altra e attraverso le parole di Ovidio::
“SUM RES PRISCA” io sono la materia primordiale… Io sono un essere antico mi chiamavo Caos: pensa a quale epoca remota ( …) io ero una massa informe e grossolana, ho acquistato un corpo ed un aspetto di un dio. Ancora adesso conservo qualche traccia di quella primitiva confusione, sono uguale davanti e dietro, però per questo mio particolare aspetto vi è anche un altro motivo, da cui ora capirai la mia funzione. Qualunque cosa tu possa abbracciare con lo sguardo, il cielo, le nuvole, la terra, il mare, sta alla mia mano aprirla o chiuderla; a me soltanto è affidata la custodia del mondo intero, e tutta mia è la facoltà di girare ogni cardine (…) Io sorveglio Le Porte del Cielo con le mie care Hore – e lo stesso Giove va e viene sotto la mia responsabilità – ed è per questo che mi chiamo Janus!“
Fasti I 89-127
Ma adesso leggiamo un passo dell’Iliade, come suggerito sempre da Felice Vinci, riferito al momento in cui la dea Hera esce dall’Olimpo con il suo carro:
”cigolano da sole le Porte del Cielo che le Ore (Horai) sorvegliano. Le Ore, a cui il Cielo immenso è affidato e l’Olimpo, se scostare o calare la densa nebbia“
(IL. V,749-745)“Qui è mirabilmente visualizzato il movimento della volta celeste lungo l’arco dell’anno, scandito dalle Ore, corrispondenti alle nostre stagioni (il termine greco Horai è affine al latino ver, da cui Primavera), le quali determinano l’alternanza del Sole e dell’oscurità (ecco la “densa nube” che lungo il volgere dei mesi viene scostata o calata, come il sipario di un teatro). A questo punto se le porte di Giano (Janus, da cui ianua, “porta” in latino) sono in realtà le porte del Cielo, ossia le porte solstiziali che segnano le due estremità dell’apparente percorso annuo del Sole sulla volta celeste, di cui le porte qui sulla Terra sono la proiezione, secondo il principio di Ermete Trismegisto “Ciò che è in basso è uguale a ciò che è in alto” si chiarisce a questo punto il significato di molte cerimonie.”
I misteri della civiltà Megalitica, pag. 107
Tigillum Sororium, un rito simbolo del passaggio da una stagione all’altra
Vediamo di analizzare questa antica cerimonia romana.
Il Tigillum Sororium era un arco ligneo, tradotto come trave della sorella, sorretta da due pali che sorgeva nell’antica Roma alle falde del Velia (Esquilino) sotto cui i soldati romani venivano fatti passare ogni 1 ottobre al termine della stagione della guerra.
Ora se in questo arco ligneo, come afferma Felice Vinci nel suo ultimo libro, identifichiamo la proiezione sulla terra di una Porta Celeste, solstizio o equinozio, possiamo dedurne che quel rito simboleggiasse il passaggio da una stagione all’altra.
Come in corrispondenza dell’avvicinarsi del solstizio d’inverno, il sole deve scendere fino ad inchinarsi sotto la “Porta solstiziale” d’inverno secondo le immutabili regole del Dio delle Porte Giano, prima di cominciare la sua risalita, possiamo ipotizzare che i cavalieri durante l’Ardia debbano passare sotto la Porta solstiziale per cominciare la discesa verso l’equinozio autunnale.
Metafora astronomica che ci mostra ancora una volta l’importanza che le antiche civiltà attribuivano alle stelle e ai loro movimenti nella volta celeste.
Ma ci chiediamo a questo punto cosa rappresentavano veramente nell’antichità pagana cavalieri che corrono in circolo? Un’idea Felice Vinci ce la fornisce nel suo ultimo libro.
Ci riserviamo di informarci meglio e aggiungere al più presto particolari.