Una stele neolitica scoperta nella mitica valle di Gremanu, in prossimità di Fonni in Sardegna, custodisce inciso sulla pietra un antico messaggio affidato al tempo da un antico popolo.
La comprensione del messaggio potrebbe spalancare nuove letture di un’antica civiltà ancora tutta da comprendere.
Il ritrovamento è avvenuto nel sito archeologico forse tra i più interessanti della Sardegna: il complesso di Gremanu o Madau.
Questo complesso nuragico, esteso per oltre sette ettari, si articola, a monte, in una serie di fonti e pozzi per la captazione e la raccolta delle acque e, a valle, in una serie di templi con abitato. Vicino sorge anche una necropoli, sempre nuragica, con 4 tombe di giganti.
E proprio tra le tombe megalitiche a forma di toro e di nave, a pochi chilometri da Corr’e Boi, luogo emblema che rimanda con il suo toponimo al culto ancestrale del dio toro, ecco che esattamente dalla tomba nr. 1 arriva a noi dal mondo prenuragico una stele istoriata forse, l’anello di congiunzione tra gli antichi sardi e il mare.
Una chiave interpretativa
“Incisioni di grande effetto, uniche al mondo, che attestano, senza ombra di dubbio essere una delle più antiche mappe del cielo”, questa è la convinzione di Roberto Barbieri, responsabile della spedizione e del team di archeologi, guidati dal Professor Giampiero Pianu dell’Università di Sassari, che da circa un anno lavora ad un progetto che lega astronomia, nuraghi, tombe dei giganti e navigazione, volto a dimostrare che questo misterioso popolo fosse in realtà dedito alla navigazione, provetti navigatori, insomma, grandi conoscitori quindi, del cielo e delle stelle.
Ecco un punto di partenza da cui cercare di interpretare l’incisione: l’astronomia.
A onor di cronaca un ampio studio effettuato sul sito e sul ritrovamento dal team guidato dalla professoressa Maria Ausilia Fadda e da Fernando Posi, esposto nel libro Il complesso nuragico di Gremanu, la stele, raffigurata in un interessante grafico che riporta ben in evidenza il lavoro di incisione, parla di “motivi magico-simbolici”.
Ma agli occhi di un navigatore abituato a leggere il cielo, non può sfuggire che “quelle coppelle incise nella pietra”, sostiene Roberto Barbieri, “sono una formidabile e puntuale rappresentazione delle Pleiadi”. Chi ha inciso quella pietra, migliaia di anni fa, leggeva il cielo e lo faceva molto bene, “aveva una spiccata familiarità nella lettura degli astri, come dimostra la fedele rappresentazione delle sette stelle principali che formano le Pleiadi”.
Secondo Eugenio Muroni, speleologo e astrofilo sassarese “si tratta certamente di una mappa del cielo. I due gruppi di coppelle, rappresentano con notevole realismo i due sistemi stellari, ammassi aperti, delle Pleiadi e delle Iadi, con in basso a sinistra la V del Toro e il suo occhio, la stella Aldebaran”.
Se fosse confermata la perfetta corrispondenza con quella parte del cielo, spesso citata o rappresentata in tantissime culture antiche, sarebbe possibile dimostrare non solo una straordinaria abilità tecnica, già riscontrata in un’altra stele sarda, rinvenuta poco distante, Sa Perda Pintà o Stele di Boeri rinvenuta a Mamoiada, con incisi 7 cerchi “perfetti” difficilmente riscontrabili in un‘altra parte del mondo, ma anche una precisa conoscenza astronomica degli antichi abitanti dell’Isola.
Verifichiamo e confrontiamo – un altro modo di fare archeologia
Le Pleiadi
Le stelle sembrano corrispondere!
Cerchiamo ora di comprendere le altre incisioni.
Ipotizzando che le coppelle in alto a sinistra siano Pleione e Atlante tentiamo di capire cosa potrebbe rappresentare quella strana struttura a “serratura” posizionata tra l’ultima coppella o stella a sinistra e Pleione e Atlante a destra. Risulta leggermente sotto le Pleiadi, nella Costellazione del Toro, più a sinistra la Costellazione di Orione.
Molto spesso sia in Sardegna che in altri antichi siti archeologici ci siamo imbattuti in strutture a forma di “serratura”, segno inequivocabile dell’importanza di questa simbologia. Una fra tutte il Pozzo di Santa Cristina a Paulilatino in provincia di Oristano o i Kofun in Giappone.
Un simbolo istoriato anche nelle tombe Egizie
Una strana rappresentazione che richiama vagamente questa simbologia appare anche istoriata nei soffitti astronomici delle tombe degli Antichi Egizi.
Proviamo ad esaminarli attraverso gli studi di Massimo Barbetta, contenuti nel suo primo libro dedicato al Cielo degli Egizi (Stargate – Il Cielo degli Egizi- Viaggio nei misteri dell’astronomia egizia).
Fin dall’inizio del secolo scorso eminenti studiosi del calibro di Karl Heirich Brugsch, Wallis Budge, Neugebauer-Parker o Alexander Piankoff, si resero conto, osservando le tombe ramessidi, di una serie di anomalie e strane formazioni poste sempre sotto alcuni registri appartenenti ai soliti tre o quattro Decani.
Proviamo a guardarle insieme velocemente (ci riserviamo un’analisi approfondita in un altro articolo) e noteremo immediatamente particolari interessanti al fine della nostra ricerca.
È importante premettere che durante la XX Dinastia, chiamata in seguito Ramesside, furono inserite sulle pareti delle tombe dei sovrani, oltre il Libro dei Morti, all’Amduat, alla Litania dei Re e al libro delle Porte, anche il Libro delle Caverne, il Libro della Terra, del Cielo, della Vacca Celeste e il Libro della Notte, trasponendo, così, in forma scritta, il ricco patrimonio culturale e religioso della tradizione egizia, fino ad allora tramandata solo oralmente.
Partiamo con la prima immagine tratta dalla Tomba di Ramses VI, Sala E Lato Nord, che mostra uno scorcio dei Decani interessanti per gli egizi, Khent Her-u, Khent Kher-u, Kod e Sa-wy Kod, davanti ai quali persino il faraone stranamente si mostra in posizione di adorazione, ma soprattutto notiamo una strana raffigurazione una specie di “serratura” il cui bordo è contrassegnato da ben 13 stelle, sei per ogni lato e una sul vertice, verosimilmente una rappresentazione di qualche ammasso stellare non identificato, ma posto più a sud delle Pleiadi, tra Orione e l’Ariete. Nel margine inferiore destro di questa immagine leggiamo con una certa difficoltà a causa delle abrasioni del tempo, l’espressione Khat Nut Nu ossia “Utero della dea del cielo Nut”.
Le stesse interessanti e proficue immagini della strana rappresentazione a “serratura” o a “goccia” tanto utili al fine della nostra indagine, sempre poste sotto gli stessi decani, le possiamo trovare nei soffitti astronomici delle Tombe di Ramses VII, Ramses IX e Seti I, nella tomba della regina Tauser, consorte di Seti II, e persino nel tolemaico Zodiaco di Esneh A, seppur secondo un’altra prospettiva. L’immagine infatti mostra sotto la Costellazione del Toro, un cerchio formato da 15 stelle, e sotto quest’anello compare un’ellisse che contiene al suo interno, i due occhi di Horus, lungo il bordo inferiore vediamo 7 stelle, secondo alcuni studiosi le Pleiadi .
Torniamo alla stele di Madau – Cerchi Concentrici
Notiamo, continuando l’osservazione della stele di Madau, che compaiono a destra cerchi concentrici che spesso vengono dipinti o scolpiti direttamente nella pietra delle Domus de Janas sarde o dei Menhir, segno di un’antica venerazione di cui però ancora non si è riusciti a comprendere il significato.
C’è chi ipotizza un culto solare o chi, come Fabio Garuti, ipotizza si tratti di una reminescenza incompresa di un’antica civiltà tecnologica, una specie di culto del cargo, incompresa e quindi venerata come appartenente agli dèi. Lo studioso fa notare la similitudine con i campi peruviani di Moray a Cuzco costruiti tutti uno vicino all’altro e con un numero di cerchi numericamente paragonabile a quello presente sul Menhir di Mamoiada, quasi a testimoniare un ricordo chiarissimo, vivido, di qualcosa di osservato con attenzione e trasmesso poi alle altre generazione.
Interessante la connessione Moray con costruzioni in pietra a secco che si sviluppano verticalmente, possenti torri circolari circolare che racchiudono uno spazio interno, con un’unica entrata che sono ampiamente diffusi nella contea scozzese di Murray, veri e propri nuraghe scozzese.
Per noi impossibile non pensare alla città descritta da Platone nel Crizia e nel Timeo: Atlantide
Ci domandiamo allora, ma questo antico popolo furono veramente i discendenti di grandi navigatori che si diffusero per tutto il mediterraneo a seguito di una grande catastrofe che colpì la loro civiltà?
Le Pleiadi nei miti del mondo
Simboli che si ripetono, zone del cielo particolarmente rilevanti per molte culture così lontane tra loro.
Fin dall’antichità le Pleiadi e la zona del cielo ad esse limitrofa, sembra aver colpito la fantasia dei nostri antenati. Ne troviamo tracce ovunque. Esse sono state fonte di leggende e miti per quasi tutte le culture del pianeta che hanno coniato dei nomi propri per questo straordinario oggetto celeste.
Gli antichi Teutoni lo chiamavano Seulainer, i Gaelici Griglean, gli Ungheresi Fiastik, i Finlandesi Het e wa ne, i Lapponi Niedgierreg, i Groenlandesi Killukturset (Cani che lottano contro un orso), i Gallesi Y twr tewdws (Il pacchetto chiuso), i Russi e i Polacchi Baba e Baby (La vecchia moglie e Le vecchie mogli), i Francesi Cousiniere (Zanzariera), gli Italiani La racchetta, gli Spagnoli Las siete cabrillas (Le sette caprette).
Un altro appellativo, comune presso molti popoli, è Le gallinelle, oppure La chioccia con i pulcini; in italiano, appunto, abbiamo Gallinella o Gallinelle, in francese Pulsiniere o Poussiniere, in tedesco Gluckhenne (La chioccia), in russo Nasedha (La gallina seduta), in danese Aften Hoehne (La gallina della vigilia), in greco moderno Pouleia (Pollaio), in inglese Coop (con il medesimo significato del Greco). Perfino gli aborigeni dell’Africa e del Borneo identificano in questo modo le Pleiadi.
Per gli indigeni delle Isole Tonga e della Società, invece, esse erano Matarii (I piccoli occhi), e dividevano in due stagioni l’anno, con il loro apparire, Matarii i nia e Matarii i raro, che vuol dire I piccoli occhi sopra e sotto (l’orizzonte).
Anche per gli abitanti del gruppo delle Hervey, le Pleiadi, rappresentavano dei piccoli occhi (Matariki): secondo loro esse erano anticamente una stella singola, così brillante che il dio Tane, morso da invidia, ottenendo il sostegno di Aumea (Aldebaran) e Mere (Sirio) la scacciò, costringendola a rifugiarsi in un fiume. Ma Mere prosciugò il corso d’acqua e Tane scagliò Aumea contro il fuggiasco rompendolo in sei pezzi; da allora le stelle si chiamarono Tauono, Le sei, appunto.
Alcune tribù del Sudamerica conoscevano le Pleiadi come Cajupal, Le sei stelle.
Gli aborigeni australiani, invece, le vedevano come Le giovani ragazze che giocavano con i Giovani uomini, rappresentati dalle stelle della Cintura di Orione.
Per gli abitanti delle isole Salomone erano Togo ni samu (Compagnia di Vergini).
Alcuni Pellerossa americani le chiamavano Danzatori, mentre altri vi avevano connesso una storia suggestiva, ispirata alla Mateo Tepe o Torre del Diavolo, una curiosissima formazione rocciosa, Monumento Nazionale degli Stati Uniti, che si erge come un tronco d’albero pietrificato, alto 400 metri, sopra le pianure del Wyoming nordorientale.
La prima citazione del gruppo è contenuta in annali cinesi risalenti al 2357 a.C. Esse rivestivano a quel tempo una notevole importanza, poiché si trovavano, a causa del movimento precessionale, presso il punto equinoziale di primavera.
Nell’antica Cina erano venerate come Le sette sorelle dell’operosità, ma in seguito vennero conosciute come Mao, Mau o Maou, che significa La Costellazione per antonomasia o come Gang, di etimo incerto.
In Persia dove, come per altre culture, esse erano molto importanti, erano chiamate Pervis, Peren o Parur.
Per i popoli mesopotamici rappresentavano, insieme con le Iadi, Mas-tab-ba-gal-gal-la, I grandi gemelli dell’eclittica poiché il percorso del Sole è proprio a metà strada fra i due gruppi. Più in particolare, gli Assiro-Babilonesi chiamavano le Pleiadi Kimtu, molto simile al siriano Kima, e all’ebraico Kimah, aventi tutti pressappoco lo stesso significato di Grappolo, Gruppo.
Nell’Antico Egitto le Pleiadi erano note come Chu o Chow e identificate con la dea Nit (La navetta), una delle maggiori divinità del Basso Egitto, equivalente alla greca Atena e alla romana Minerva. Un altro nome usato dagli Egizi era Athur-ai o Stella di Hathor, la dea dal corpo di donna e dalla testa di vacca, singolarmente simile ad Al Thurayya, il termine arabo con cui l’ammasso veniva designato (Il gruppo).
Anche gli Arabi peraltro chiamavano le Pleiadi La Costellazione (Al Najm) per eccellenza, confermando così ulteriormente l’enorme importanza ad esse attribuita nell’antichità.
Davanti a tutto ciò siamo autorizzati a ipotizzare un’unica fonte che influenzò il “pensiero “ delle prime civiltà, portando l’attenzione su questa zona del cielo?!
In altri articoli proveremo ad aggiungere tasselli al grande puzzle.
Fonti:
– Massimo Barbetta, Stargate – Il cielo degli Egizi, Uno editore
– Gabriele Vanin http://www.gabrielevanin.it/
Ha al suo attivo 462 pubblicazioni, fra cui 30 libri, due traduzioni, quattro contribuzioni a libri, tre curatele di volumi di atti, oltre 300 articoli su periodici a diffusione nazionale, oltre un centinaio su periodici locali. È stato direttore editoriale dal 1997 al 2001 della rivista Astronomia dell’UAI. Sul mensile L’Astronomia è stato titolare, dal 1994 al 2002, della rubrica fissa Primi passi. Tre dei suoi libri, pubblicati da Mondadori, hanno avuto grande successo anche all’estero: L’Atlante fotografico dell’universo è stato pubblicato anche in Francia, Canada e Stati Uniti, I grandi fenomeni celesti è stato pubblicato anche in Germania, Stati Uniti e Francia, Le eclissi è stato pubblicato anche in Francia. Nel 1999 ha anche tradotto per Mondadori L’universo invisibile di David Malin, il più grande astrofotografo del mondo.