Continuiamo i nostri approfondimenti sui documenti inerenti la Grande Piramide.
La datazione al radio carbonio
Nella prima parte di questo articolo avevamo accennato al fatto che Diodoro Siculo parlava di una possibile costruzione o di lavori sulla Grande Piramide effettuati più di 3.400 anni prima della sua epoca, che sappiamo essere stata compresa fra il 60 e l’80 a.C.
È possibile che questa ipotetica data venisse confermata o, comunque, non smentita da altri dati tecnici?
Nel 1986 la ARE (Association for Research and Enlightenment), facente capo alla Cayce Foundation, effettuò, organizzata sotto l’egida dell’egittologo statunitense Mark Lehner, una datazione al carbonio 14 di diversi campioni prelevati negli strati esterni della Grande Piramide, nell’ambito del Pyramid Carbon-dating Project.
Due di questi campioni furono inviati al laboratorio della Southern Methodist University (SMU) di Dallas, nel Texas, mentre altri 14 furono inviati al laboratorio svizzero di Zurigo (ETH). Di questi ultimi, 2 riguardavano un campione di carbone ed uno di legno, mentre gli altri 12 erano campioni di malta.
I risultati hanno confermato, per la malta, una data che oscilla fra il 2.853 a.C. fino al 3.090 a.C., estendibile, mediante la fluttuazione positiva, in aumento, fino al 3.243 a.C.
Se noi consideriamo, poi, la datazione del carbone e del legno, entrambi prelevati dal 198° ripiano della Piramide, otteniamo una data che si spinge oltre il 3.900 a. C.. Entrambi questi materiali, peraltro, forniscono una data superiore a quella indicata da Diodoro Siculo, mentre altri sono ad essa molto vicini. A questo punto, la data fornita da Diodoro verrebbe confermata da rilievi scientifici incontrovertibili.
L’entrata scomparsa
L’accesso alla Grande Piramide per tutti i turisti che vi si recano, avviene ora nella facciata nord, attraverso una piccola apertura, chiamata Foro di al Ma’moun, fatta scavare dal califfo al-Ma’moun nell’820 d.C.. Ma l’entrata principale, molto più possente e con un timpano costituito da 2 robuste lastre contrapposte di calcare, poste a lambda (Ʌ), per sopportare la grande quantità di pietre sovrastanti, è collocata, invece, a sinistra ed in alto rispetto al Foro. Essa, infatti, risulta situata a 17 metri da terra ed a 7,30 metri a sinistra della linea mediana della facciata stessa.
Tale entrata, peraltro, risulta inserita all’interno di una piccola piattaforma.
Poiché al-Ma’moun scavò un foro in un punto della facciata nord, che, giustamente, sapeva essere la sede dell’entrata della Piramide, quando avrebbe potuto farlo nell’entrata principale dell’edificio, se questa fosse stata realmente visibile?
In realtà noi possiamo chiaramente dedurre che l’entrata principale era chiusa da molti piccoli blocchi di calcare che, per un’estensione di almeno 4 metri in avanti, avevano sigillato l’entrata, dimostrando, per l’ennesima volta, un esempio concreto del lavoro descritto da Erodoto, di trasformazione e riempimento di Krossas/Verticali e Bomidas/Orizzontali, con la successiva apposizione di lastre di liscio calcare, entro spazi in origine più ampi.
Con buona probabilità, dal 1.060-1080 a.C. (Diodoro + Erodoto) l’entrata principale della Grande Piramide non era più stata visibile sulla facciata nord.
D’altro canto, nel Lamento di Ipuwer (Leyden, I 344 recto) copia egizia della XIX dinastia, di un originale della XII dinastia, veniva detto che, a seguito di un importante vuoto di potere e di autorità, anche la Piramide (forse la Grande Piramide) era stata violata. Di sicuro, a quanto abbiamo visto finora, dopo il 1.060-1.080 a.C. questo evento, davvero spiacevole per tutti, non si sarebbe più verificato.
Un piccolo robot… intraprendente
Nel 1993 l’ingegnere tedesco Rudolf Gantenbrink, incaricato di effettuare dei lavori di manutenzione sui condotti della Camera del Re, che uscivano all’esterno, ideò un piccolo robot, munito di cingoli e di una video-camera, per esplorare questi condotti. La 2a versione di questo robot, chiamato Upuaut II (dal nome dell’omonima antica divinità egizia, il cui appellativo significava, in modo beneaugurante per l’intera esplorazione, Apritore di vie) effettuò le esplorazioni. I risultati completi e le immagini di questa esplorazione, in seguito estesa a tutti e 4 i condotti che partivano dalle Camere del Re e della Regina, sono poi stati inseriti dallo stesso Gantenbrink nel suo sito Cheops.org. Esiste in questo sito un’ottima ricostruzione, in falsi colori, che sfrutta il programma AUTO-CAD, in cui Gantenbrink inserisce i dati tecnici completi, inerenti i 4 condotti esplorati.
Gantenbrink ci mostra che i condotti sono sempre costituiti, per tutta la loro lunghezza, da sezioni ricavate da 2 grossi blocchi (uno superiore ed uno inferiore) lunghi 2-2,5 metri, che determinano un incavo centrale. Tuttavia, nella parte terminale del condotto nord della Camera del Re, proprio quando esso sbuca all’aperto, questi blocchi lunghi sono stranamente sostituiti da 4 blocchi, lunghi soltanto 50 cm (la quarta parte di un blocco ‘standard’!), ed hanno caratteristiche diverse dagli altri, sia per struttura, che per il materiale usato, che per il loro grado di usura.
Questo fatto appare così evidente e significativo, che lo stesso Gantenbrink appone una nota personale, che afferma: “Questa parte del condotto è un restauro recente”.
Tenuto conto che, a causa della spoliazione successiva operata sistematicamente dagli egiziani, dall’epoca medievale in poi, che ha fatto lentamente riapparire elementi architettonici e strutturali della vecchia costruzione della Piramide, questi 4 blocchi, pur essendo di epoca più recente, risultavano, comunque, tutti affondati all’interno della struttura stessa. Come si può individuare dalla linea obliqua grigia continua, disegnata dallo stesso Gantenbrink, che traccia il profilo originale che aveva la Piramide stessa, essi erano situati molto all’interno di essa, e, quindi, risultavano totalmente coperti da numerosi blocchi di riempimento e copertura.
Il punto in cui il condotto sud emerge all’aperto risulta collocato, attualmente, su di una piccola piattaforma, assente nella costruzione originale, che lo conglobava integralmente, ma emersa a seguito dei predetti sistematici lavori di spoliazione dei blocchi di rivestimento esterno. Tale struttura architettonica, fornita, perciò, di una parte orizzontale, da cui fuoriesce il condotto stesso, e di una parte verticale, richiama in questo preciso punto, in maniera sbalorditiva, l’assetto che tutta la Piramide doveva probabilmente avere prima del lavoro descritto sia da Erodoto nelle sue Storie, ed operato da Cheops, sia narrato da Diodoro Siculo nella sua Biblioteca storica, e fatto da Chemmis. In pieno accordo con quanto descritto da Erodoto, la parte verticale corrispondeva a Krossas, mentre quella orizzontale equivaleva a Bomidas.
La presenza di questi 4 blocchi larghi solo 50 cm, più nuovi e di struttura diversa, rispetto a tutti gli altri blocchi, lunghi 2-2,5 metri, che delimitano il condotto, avvalora la tesi, proposta sia da Erodoto, che da Diodoro, che la parte esterna della Piramide fu ampliata, integrata e riempita con materiale di riempimento più piccolo e di epoca più recente (1.060-1.080 a. C.) rispetto a quella pre-esistente, molto più antica.
Ma utili informazioni ci vengono fornite da Gantenbrink anche sulla sua esplorazione del condotto sud proveniente dalla Camera della Regina. Il condotto, in origine, era chiuso da entrambi i lati, ma, mentre il lato verso la Camera della Regina era stato già aperto molti anni prima, nessuno aveva mai esplorato la parte distale del condotto stesso. Il robot Upuaut II giunse, sempre nel 1993, a fotografare una paratia in calcare che chiudeva il condotto stesso. Tale ‘porta’ venne denominata ‘di Gantembrink’ dal suo scopritore e presentava, verso l’osservatore, 2 piccole e sottili appendici metalliche, un po’ ossidate, probabilmente di rame, di cui quella collocata sul lato destro, appariva più lunga dell’altra. L’immagine suggerita da queste due appendici metalliche sembrava far ipotizzare che si trattasse del lato interno di una maniglia, simile all’effetto potenziale odierno di guardare il lato interno di una maniglia di un cassetto.
Una volta caduto in disgrazia Gantembrink, presso Zahi Hawass, nel 2002 fu organizzata un’ulteriore esplorazione da parte dell’istrionico Hawass, che tramite un altro robot, della iRobot di Boston, giunse, non senza fatica, per l’aggiramento obbligato della Grande Galleria, alla conclusione del condotto nord, sempre proveniente dalla Camera della Regina. Qui furono nuovamente trovate due appendici metalliche del tutto simili a quelle trovate nella ‘porta di Gantenbrink. Appariva così del tutto verosimile che queste 2 lastre di calcare, munite di maniglie fossero state comodamente poste dall’esterno, a chiusura del condotto, quando furono effettuati i lavori (forse quelli descritti da Erodoto e Diodoro) sulla Grande Piramide.
A sinistra la ‘Porta di Gantenbrink’, scoperta nel 1993, a destra la ‘Porta Nord’, scoperta nel 2002. Entrambe mostrano queste due strane e sottili appendici metalliche, forse di rame, che assomigliano alla parte interna di una maniglia.
Oltre a ciò, sempre nel 2002, fu effettuata la trapanatura, mediante lo stesso robot e ripresa dal National Geographic Channel con grande enfasi mediatica, della ‘porta di Gantenbrink’, collocata alla fine del condotto sud, che rivelò avere il considerevole spessore di 8 cm. Interessante fu notare come, nelle immagini del 2002, la sottile appendice metallica del lato destro di questa ‘porta’ era caduta e poi scomparsa, rispetto all’immagine fattaci avere nel 1993 da Gantenbrink.
L’introduzione di una fibra ottica nell’orifizio scavato dalla trapanatura, ha rivelato in seguito l’esistenza, a 25-30 cm di distanza dalla prima, di un ulteriore diaframma, sempre di calcare, ma privo di appendici metalliche. Tale ulteriore lastra è stata poi chiamata Porta di Hawass.
A sinistra visione frontale della ‘Porta di Hawass’, a destra schema che sfrutta la grafica usata da Gantembrink, e che mostra l’insolito spessore della Porta di Gantenbrink’, di ben 8 cm e, dopo 25-30 cm, la nuova ‘Porta di Hawass’, con un grosso punto interrogativo su che cosa fosse situato oltre questo diaframma.
Non possiamo fare illazioni su che cosa ci fosse dietro la porta di Hawass, se non ipotizzare che, considerata la distanza di soli 15 metri esistente verso il profilo esterno obliquo della facciata sud della Piramide, estendibile a 19 metri in direzione della primitiva copertura obliqua dell’edificio, ora scomparsa, lo spazio disponibile per una camera nascosta di una certa cubatura, non sia davvero molto, ma non si può escludere né l’eventuale esistenza di un locale più piccolo, di servizio, né la totale assenza di altri locali, in questo punto della costruzione.
Il re che amava i fasti dell’Antico Regno
Ci domandiamo a questo punto. Esistono prove egizie di un re che fece dei lavori nella piana di Gizah e che fosse molto interessato alla Grande Piramide durante questa dinastia, intorno al 1.060-1.080 a.C., come suggerito da Diodoro Siculo?
Queste prove ci sono e ci vengono nuovamente comunicate dal famoso egittologo Petrie (The Pyramids and Temples of Gizeh, 1883, cap. 17, par. 118). Mentre l’egittologo inglese parla della Stele dell’Inventario, ritrovata in un piccolo Tempio, ribattezzato Tempio di Iside, riadattato con materiali di riporto recuperati da costruzioni vicine, parzialmente in rovina, apprendiamo che:
“La stele si trovava vicino al lato est della Piramide nr. 9 di Vyse (attuale G1C), la più meridionale delle piccole piramidi poste vicino alla Grande Piramide. Gli scavi, fortunatamente, qui, avevano scoperto la scena di un re che faceva un’offerta ad Osiride, e, sebbene un po’ danneggiato, il cartiglio era ben leggibile e mostrava il nome di Petukhanu (Psusennes I) della XXI Dinastia, che è rappresentato mentre indossa la corona del Basso Egitto. Questo ci fornisce la data del tempio, ed il carattere del lavoro ben si accorda con questa epoca…Qui Osiride è ripetutamente chiamato Neb Rostau o Signore della Necropoli. Tale titolo non ricorre mai in nessuna delle dozzine di tombe con iscrizioni, risalenti all’Antico Regno, che sono visibili a Gizah. Ma è ripetutamente presente in questo tempio costruito da Petukhanu durante la XXI Dinastia, da cui proviene questa stele”.
A proposito della Stele dell’Inventario, una rozza stele fatta a ‘falsa-porta’, scoperta nel 1858 da Auguste Mariette, in cui si menziona il re Khufu e la Sfinge, anche se essa era intesa in senso topografico, lo stesso Petrie, nel suo testo, afferma che, per ragioni varie (lessicali, teologiche, grafiche, tecniche) da lui elencate in modo estremamente dettagliato, questa stele non appartiene al periodo del faraone Khufu, né sembrerebbe rappresentare una copia fedele di un documento originale più antico.
Altre utili informazioni sulla Stele dell’Inventario ci giungono dall’egittologo americano James Henry Breasted (Ancient Records of Egypt, 1906, par. 177), che conferma l’opinione di Petrie:
“Il riferimento al tempio a fianco della Sfinge nell’epoca di Khufu hanno reso la Stele, fin dall’inizio un monumento di grande importanza. Tali riferimenti sarebbero di grande rilievo se fossero contemporanei di Khufu, tuttavia le evidenze ortografiche del suo periodo tardo sono molto evidenti ed il riferimento al tempio di una dea il cui culto si manifestò in periodo tardo, così come quello di Iside, definita “Signora della Piramide”, provano conclusivamente che la presente Stele non è una copia di un documento antico. Il fatto che i sacerdoti dell’epoca di Pesebkhenno (Psusennes I) considerassero l’edificio a fianco della Sfinge come il “Tempio di Osiride, Signore di Rostau” (“Per Ausir, Neb Rostau” in geroglifico) appare, comunque, di grande interesse, ma non ci determina l’originale carattere della struttura.”
Infine Selim Hassan (The Sfinx, 1949, pag. 216) ribadisce che:
“I re della XXI dinastia erano noti per loro devozione e Pasebekhanu (Psusennes I), il secondo re di questa dinastia visitò il distretto di Gizah, ma sembra per motivi religiosi, più che per passatempo. Sembra che egli avesse iniziato a ricostruire il Tempio di Iside, che sorgeva ad est della piccola piramide della figlia di Khufu, la principessa Henutsen, e che, condiviso con la Sfinge, era destinato a divenire un popolare luogo di pellegrinaggio ed adorazione durante il Periodo Saitico”.
A sinistra ruderi del piccolo Tempio di Iside, a Gizah, con 4 colonne, di cui solo 1 ancora in piedi, fatto costruire da Psusennes I°, entro cui fu rinvenuta la “Stele dell’Inventario”, visibile a destra, dove la freccia gialla indica il punto di partenza dell’iscrizione, che inizia con il simbolo dell’”Ankh”, “Lunga vita”. In un caso la frase si sviluppa poi verso sinistra, scendendo lungo il montante di sinistra, mentre, nell’altro, essa si sviluppa verso destra, scendendo, a sua volta, verso il montante di destra. Subito dietro ai ruderi troviamo la piccola piramide denominata G1C, mentre sullo sfondo, a sinistra in alto, compare la Piramide di Chefren.
Petrie, per esclusione, giunge così ad ipotizzare, per la Stele dell’Inventario, che:
“si tratti di una iscrizione inventata, designata per la decorazione del Tempio (di Iside)… Si potrebbe, al limite, soltanto ipotizzare un riadattamento di una iscrizione originale più antica.”
Pertanto, l’opinione attuale degli egittologi riguardo a questa stele, per ragioni stilistiche, epigrafiche, lessicali e stratigrafiche, è che si tratti di una copia di periodo saitico, della XXVI dinastia (circa 670 a. C), sulla base di un probabile originale della XX-XXI dinastia, molto lontano, quindi, dal periodo in cui visse l’antico faraone Khufu della IV dinastia.
Il testo della Stele dell’Inventario afferma, nelle sue parti salienti:
“Lunga vita ad Horus Mezed, re dell’Alto e Basso Egitto Khufu” che gli venga data la lunga vita! Egli trovò la casa di Iside, Signora della Piramide a fianco della casa di Huron (Sfinge), a nord-ovest della casa di Osiride, Signore di Rostau. Egli costruì di nuovo (restaurò) la sua piramide a fianco del tempio di questa dea e costruì una piramide per la figlia del re, Henutsen, a fianco di questo tempio.”.
La locuzione Horus Mezed sembrerebbe essere un’invocazione beneaugurante ad Horus, il dio falco, ma richiama davvero molto quello che è il Nome Horus, uno dei 5 appellativi o titolature regali, dello stesso re Khufu. Tuttavia, essa presenta una variazione lessicale che sembra rivelarsi del tutto significativa. Il vero Nome Horus di Khufu è Mez(dj)ed-u, dove il verbo geroglifico Mez(dj)ed ha il significato di Colpire, premere, e risulta accompagnato dalla desinenza del participio verbale “u”, di cui paleremo diffusamente più avanti. La locuzione Mez(dj)ed-u avrebbe, pertanto il significato di Colui che colpisce o Colpitore, mentre nella Stele dell’Inventario la desinenza “u” appare del tutto assente.
A sinistra l’appellativo di “Horus Mezed” nella Stele dell’Inventario. A destra, dettaglio, proveniente dalle incisioni rupestri dello Wadi Maghara, tratto da “Denkmaeler” di Carl Lepsius, che mostra il “Nome Horus” di “Khufu”: “Mezed-u”, “Colpitore”. Nell’iscrizione della Stele dell’Inventario manca il simbolo della desinenza “u” del participio verbale
Quindi, nella Stele dell’Inventario il verbo Mez(dj)ed, relativo al re Khufu, risulta orfano della desinenza “u”.
Ma appare un dato di fatto che:
se il re Khufu corrisponde, per ragioni lessicali, al Cheope di Erodoto, che collocava questo re nella XX-XXI dinastia (come faceva anche Diodoro Siculo con il suo Chemmis) a quanto osservano, del tutto giustamente, gli egittologi, esiste un documento, la Stele dell’Inventario appunto, che parla di un re, di epoca tarda, che si chiamava (o si definiva) Khufu, e che aveva fatto dei lavori nella piana di Gizah, ma che non aveva lo stesso preciso Nome Horus dell’’originale’ Khufu.
Per tal motivo possiamo sostenere che le affermazioni di Erodoto sarebbero confermate proprio dalla Stele dell’Inventario.
Certo è che, effettivamente, il faraone Khufu o Khnem(ba) Khefu apparteneva alla IV dinastia e, come ci dicono le fonti egittologiche, aveva realmente fatto dei lavori sulla Grande Piramide.
Come si esce allora, da questo davvero intricato ‘impasse’ di nomi e periodi cronologici?
Quello che Petrie non comunica esplicitamente, tuttavia, è il perché tale stele sarebbe stata inventata o riadattata da un’iscrizione più antica che parlava del re Khufu e della Grande Piramide, e chi sarebbe stato l’artefice di questa frode, su base emotiva e pseudo-religiosa.
La potenziale risposta si trova, tuttavia, nell’opera dello stesso Petrie, leggendo del luogo dove questa Stele fu ritrovata (il Tempio di Iside) e chi fu il costruttore del luogo sacro dove essa fu rinvenuta (Psusennes I). Appare verosimile che, in un estremo slancio di amore verso i fasti del passato, Psusennes I avesse raccolto tutte le piccole statue di varie divinità, che, nel corso dei secoli si erano accumulate, dopo essere state abbandonate nei pressi di quella zona della piana di Gizah, le avesse ‘inventariate’ (da qui il nome di Stele dell’”Inventario”), ponendole poi al sicuro, insieme ad altri lavori di restauro di templi, ed avesse fatto intagliare la stele a ricordo di questa sua benemerita opera, adoperando, tuttavia il nome del suo rispettato idolo, il faraone Khufu della IV dinastia, per designare il suo autore potenziale.
Il falso storico creatosi avrebbe tuttavia generato, 3.000 anni dopo, una certa confusione per dipanare l’intricata matassa ad esso connessa.
Una possibile ma risolutiva chiave di lettura può esserci, però, proposta da una appellativo religioso.
All’interno del Tempio di Iside, a Gizah, costruito dal faraone Psusennes I (il Petukhanu di Petrie ed il Pesebkhenno di Breasted) Osiride viene ripetutamente citato con l’appellativo di Neb Rostau, Signore di Rostau. Allo stesso modo, nella Stele dell’Inventario, Osiride viene appellato proprio come Neb Rostau.
Per tal motivo possiamo sillogisticamente sostenere, che il personaggio descritto come autore della Stele dell’Inventario, pur essendo formalmente chiamato Khufu, fosse proprio Psusennes I.
Ma chi era stato questo Psusennes I?
A sinistra maschera d’oro del re Psusennes I, molto vagamente simile a quella del faraone Tut-ankh-Amen (con cui viene talora confusa), a destra la maschera del suo sarcofago d’argento, scoperto nel 1940 da Pierre Montet
Il re Psusennes I della XXI dinastia era originario di Tanis, dove fu sepolto, la città sul Delta del Nilo dove c’era la più popolosa colonia ebraica del Basso Egitto, all’interno dell’ebraica terra di Goshen, ripetutamente citata nella Bibbia. Egli regnò, secondo gli egittologi, dal 1.050 al 1.001 a.C., per circa 49 anni, e ricordiamo che Erodoto, nelle sue Storie, attribuisce a questo re 50 anni di regno.
A sinistra l’archeologo Pierre Montet chinato verso il sarcofago di Psusennes I, a Tanis. A destra un ricco pettorale del faraone esibisce il suo cartiglio, qui letto da sinistra verso destra
Questo faraone aveva il nome Sa Ra (Figlio di Ra), pre-incoronazione, di Pa-Seba-Kha-n- Niut (La stella che sorge nella Città (Tebe)). Sulla falsariga del detto latino in nomen, omen, che considerava la presenza della Stella che appare in città del suo nome, Psusennes tradiva interessi religiosi-astronomici, tanto da farsi scolpire il suo sarcofago funerario come se lui stesso, dopo la morte, fosse totalmente abbracciato da Nut, la Dea del cielo e da proporre la trascrizione, all’interno della sua tomba, di alcuni dei Decani celesti considerati particolarmente sacri dagli egizi e direttamente da loro connessi agli dei, come è emerso dalle mie ricerche (Stargate: il cielo degli dei e La porta degli dei: Stargate 2).
Di Psusennes I sappiamo, inoltre, in base a piccoli dettagli, che era alla ricerca di recuperare e mantenere i fasti del passato dell’Antico Regno, e ne è una prova la costruzione, riadattata, proprio del Tempio di Iside, sulla piana di Gizah.
Nonostante la sua tomba fosse stata trovata intatta e con un corredo funerario ricchissimo e prezioso, con moltissimi oggetti in oro e pietre dure, finemente cesellati, secondo solo a quello di Tut-Ankh-Amun, e nonostante i ripetuti ed infruttuosi tentativi di pubblicizzazione dell’evento ad opera del suo scopritore, l’archeologo francese Pierre Montet, il re Psusennes I rimase nell’ombra mediatica per molti decenni. Ed ancora oggi, ove si eccettuino, logicamente, gli addetti ai lavori, questo re è davvero molto poco conosciuto.
Khufu: un nome od un titolo?
Abbiamo finora appreso che il faraone citato nella Stele dell’Inventario, molto facilmente appartenente alla XXI dinastia, così come il re della IV dinastia, connesso alla Grande Piramide, era Khufu, anche se questo re era conosciuto, nell’Antico Regno, anche con un altro appellativo.
Il complesso e variegato dibattito inerente la presenza di 2 nomi per il faraone della IV dinastia, connesso alla Piramide, e forse un po’ semplicisticamente liquidato dagli egittologi, sarà oggetto di un mio prossimo approfondimento.
Quello che cerchiamo di indagare qui è il possibile significato del termine Khufu. Per farlo dobbiamo dapprima ascoltare l’autorevole parere degli egittologi sul significato del nome del grande faraone, Sneferu, padre del faraone noto come Khufu, ed, a sua volta, connesso ad altre piramidi.
Il nome Sneferu, ci dicono esaurientemente i lessicologi egizi, è composto da 3 parti: il prefisso S, dal valore causativo, che induce a fare l’azione stessa; il verbo Nefer, dal significato di “Essere bello, gradevole”; la desinenza “u” del participio verbale, come ci informa Alan Gardiner (Egyptian Grammar, par. 353, pag. 270).
Il nome Sneferu, perciò, ha il significato l’Abbellente o Colui che abbellisce, che rende gradevole ed, in senso più concreto, con la sostantivazione del verbo, l’Abbellitore.
Sull’onda lunga del detto latino Talis pater, talis filius, si può ipotizzare che anche Khufu, figlio di Sneferu, avendo il nome che terminava con la stessa desinenza “u”, del padre Sneferu , rappresentata dal simbolo geroglifico del Pulcino di quaglia, si servisse di questa desinenza con la funzione di participio verbale, con la stessa valenza sintattica di Sneferu.
A sinistra osserviamo il verbo geroglifico “Snefer”, “Abbellire, rendere gradevole, piacevole”. A destra osserviamo 2 cartigli verticali del faraone “Sneferu”, in cui al verbo “Snefer”, nel riquadro rosso, si aggiunge la desinenza del participio verbale “u”, nel riquadro verde. Il risultato diviene, perciò: “Colui che abbellisce”, ed, in forma sostantivata, l”Abbellitore”.
Il problema che ha creato un certo grado di confusione fra gli egittologi, è che, nel nome Khufu, il verbo presente sarebbe Khu, Proteggere. La “f”, corrispondente al simbolo geroglifico della Vipera cornuta, ha, usualmente, nella lingua geroglifica, la funzione della 3a persona singolare maschile del pronome personale soggetto (egli), o complemento (lui) e del pronome possessivo (suo (di lui)).
In alto a sinistra il verbo geroglifico “Khu”, dal significato di “Proteggere”. A destra il cartiglio di “Khufu”, secondo le indicazioni degli egittologi. Nel riquadro rosso abbiamo l’analogo verbo “Khu” = “Proteggere”. Nel riquadro blu abbiamo il simbolo della “f”, che sta per il pronome personale soggetto o complemento o per il pronome possessivo. Nel riquadro verde abbiamo il simbolo della “u” che crea alcune difficoltà agli egittologi per la sua traduzione, condizionata dalla presenza del precedente simbolo della “f”.
In basso a sinistra notiamo che se aggreghiamo il simbolo della “f” al verbo “Khu”, intendendolo, in questo modo, come una sua variante lessicale, per un valore di “Khuf” (riquadro rosso),otteniamo che il simbolo della “u” può venire ora assimilato alla desinenza del participio verbale, nello stesso modo usato per costruire il nome “Sneferu”, padre dello stesso “Khufu”. Il significato del nome di “Khufu” diverrebbe “Colui che protegge” o il “Protettore”. In basso a destra osserviamo, nelle iscrizioni dello Wadi Maghara, il “Nome Horus” di “Khufu, che mostra la locuzione “Mezed-u”, con il verbo “Mezed”, “Colpire, premere” (nel riquadro rosso), seguito dalla desinenza “u” del participio verbale (nel riquadro verde), a formare la locuzione sostantivata “Colpitore”
Il simbolo geroglifico della “f”, essendo situato dopo il verbo Khu, creerebbe le difficoltà degli egittologi nell’interpretare la successiva “u”, od ultimo simbolo geroglifico del nome Khufu. Gli egittologi rendono così il nome di Khufu in forma, non del tutto credibile, in Protegge egli me, o Khnum mi protegge seguendo motivazioni lessicali che, per brevità, non affronto in questa sede.
Ma, se consideriamo il simbolo della “f”, la vipera cornuta, non nella sua consueta funzione grammaticale geroglifica, ma come una variante lessicale poco usata, ma peculiare dell’Antico Regno, del verbo Khu, Proteggere, che, in tal modo, diverrebbe Khuf, potremmo giustamente attribuire alla desinenza finale “u”, il valore di participio, con un andamento del tutto analogo a quello usato per formare Sneferu, il nome del padre stesso di Khufu.
Pertanto, potremmo così ipotizzare che il nome Khufu avrebbe il significato di Colui che protegge, e, quindi Protettore.
Tale nome, in questa nuova accezione di significato, si accosterebbe davvero bene alla funzione di questo faraone, inteso, perciò, come Custode e Protettore della grande Piramide di Gizah, intesa come l’Orizzonte, in geroglifico Akhet.
D’altro canto, l’utilizzo della desinenza “u”, peculiare del participio verbale, per il faraone Khufu era già confermato dal suo Nome Horus. Si trattava, infatti, di Mez(dj)ed-u, dove il verbo geroglifico Mez(dj)ed, Colpire, premere, era seguito dalla desinenza “u” del participio verbale, che formava, così, una precisa locuzione che significava Colui che colpisce od, in forma sostantivata, Colpitore.
Ed, a questo punto, la valenza di significato del nome Khufu, inteso come il Custode o Protettore, si accosterebbe molto bene alla funzione assunta, nella XXI dinastia, da Psusennes I, il Cheops di Erodoto ed il“Chemmis di Diodoro, che si assunse l’onere (e l’onore) di restaurare gli antichi templi della piana di Gizah, raccogliendo ed ‘inventariando’ molte statue ed icone di antichi dei, di varie dimensioni e materiali che, nel corso dei secoli, erano state abbandonati a Gizah, e facendo importanti lavori di riempimento, abbellimento ed ampliamento della Grande Piramide.
In questo senso Psusennes stesso si sarebbe sentito realmente un redivivo Khufu , o ‘neo-Khufu, condividendo emotivamente e psicologicamente, a pieno titolo, lo spirito e le funzioni del suo più illustre antenato.
Proseguiremo la nostra ricerca nell’ultima parte di questo studio.