“È vero quello che Platone narra? Questa è la domanda di chiunque s’avvicina al racconto di Atlantide”. Così il famoso grecista Enrico Turolla (1896-1985) introduce il mito dell’isola scomparsa, che è stato evocato per primo da Platone nei dialoghi Timeo e Crizia e che da allora nel corso dei secoli ha fatto sempre scorrere fiumi d’inchiostro.
La risposta che si dà questo illustre studioso è chiara e netta: a suo avviso, Platone “è portatore di una voce che viene di più lontano. Egli ha ricevuto, ha sistemato; non ha inventato; anzi ha conservato fedelmente, come l’accenno al continente al di là del mare (Timeo, 25a1) senza possibilità di dubbio, dimostra”. Il riferimento è al passo in cui Platone afferma che nell’Atlantico, al di là dell’isola perduta, vi sono altre isole, oltre le quali quell’immenso mare è circondato da “una terra che veramente, indubbiamente, con assoluta certezza si può chiamare un continente”. Ora, che un grandissimo pensatore come Platone, con una prosa sempre elegante, abbia messo in gioco la propria credibilità scommettendo – attraverso l’uso invero inconsueto di tre avverbi consecutivi, l’ultimo dei quali al superlativo – sull’esistenza di un continente oltremare che alla sua epoca era del tutto sconosciuto, ci attesta l’attendibilità del suo discorso (e della fonte a cui aveva attinto, nella quale evidentemente riponeva la massima fiducia), visto che noi oggi ben sappiamo che quel continente al di là dell’oceano esiste davvero!
Altro argomento che a mio avviso rende verosimile il racconto platonico sta nel fatto che il Crizia si sofferma a descrivere, in parallelo con Atlantide, un’Atene antichissima, fondata e guidata da Atena e da Efesto, inserita in un’Attica morfologicamente tutta diversa da quella attuale: “In quel tempo aveva per montagne alte ondulazioni di terra; le piane che ora si chiamano campi di Felleo, erano coperte di una terra grassa; c’erano vaste foreste sulle montagne (…) Dovunque scorrevano copiose acque di fiumi e sorgenti”. Era differente anche lo stesso territorio della città: “A quel tempo la zona dell’Acropoli non era come è adesso (…) Allora era tanto vasta, che si estendeva fino all’Eridano e all’Ilisso, comprendeva la Pnice e dalla parte opposta era limitata dal monte Licabetto”. In una parola, l’Atene preistorica descritta nel Crizia è alquanto differente dall’Atene greca. Ora, secondo la teoria esposta nel mio volume Omero nel Baltico. Le origini nordiche dell’Odissea e dell’Iliade, l’Atene greca avrebbe effettivamente avuto il suo prototipo in un’altra Atene, quella citata da Omero, fiorita nel secondo millennio a.C. nel mondo del Baltico, dove si sarebbero svolti gli eventi raccontati nei poemi omerici, che solo successivamente sarebbero stati trasposti nel Mediterraneo da popoli discesi dal nord, i quali vi ricostruirono la loro perduta patria baltico-scandinava usando i nomi dei luoghi che avevano dovuto lasciare (come dopo di loro avrebbero fatto tanti altri popoli di migratori: pensiamo a New York, New Orleans e così via). D’altronde, l’ampiezza attribuita dal Crizia al territorio di quella remota città preistorica (situata nella zona della moderna città svedese di Karlskrona, non lontana da quello che era l’omerico Capo Sunio) ha un preciso corrispettivo nell’aggettivo “spaziosa” con cui Omero “fotografa”, si può ben dire, la sua Atene nordica.
Alla localizzazione di Atlantide tutto ciò dà una nuova prospettiva: infatti nel mondo nordico, a partire dalla fine dell’era glaciale, si sono ripetutamente verificati allagamenti e sommersioni di vasti territori. Ad esempio, il Rydbeck ha ipotizzato l’esistenza, durante il periodo megalitico, di un territorio intermedio emerso, nel mare del Nord, fra le isole britanniche e la penisola cimbrica (ossia lo Jutland, chiamato dai Romani Chersonesus Cimbrica). Si tratterebbe dell’antica isola recentemente battezzata con il nome di Doggerland, ma ormai sommersa da millenni, su cui attualmente gli studiosi continuano ad indagare (e che già qualcuno ha accostato al mito di Atlantide). Ora, ciò corrisponde a una precisa indicazione geografica di Platone, secondo cui l’aggressiva civiltà degli Atlanti avrebbe colonizzato, sul continente europeo, una regione detta “Gadirica”, il cui nome sembra accostabile a quello dell’attuale territorio di Agder, nella Norvegia meridionale, situato proprio di fronte al mare del Nord. E qui l’Odissea ci consente di chiudere il cerchio: infatti proprio in quell’area della Norvegia, in una zona non distante da Agder, è collocabile la civiltà dei Feaci, che, come è stato rilevato da vari studiosi, presentano diversi tratti in comune con gli Atlanti del Crizia: pensiamo alla loro vocazione marinara (Omero li definisce nausiklytoí, cioè “navigatori famosi”), alla loro discendenza dal dio Poseidone, alle caratteristiche della reggia di Alcinoo, ai sacrifici di tori, alla stessa parentela del re con sua moglie, che era figlia di suo fratello.
Soffermiamoci ora per un attimo sulla ricollocazione nordica dei poemi omerici, tema centrale di Omero nel Baltico: essa risulta necessaria per risolvere tutte le macroscopiche incongruenze geografiche, morfologiche e climatiche della tradizionale ambientazione mediterranea, già notate nell’antichità. Ad esempio, l’enigmatico Peloponneso omerico, descritto in entrambi i poemi come pianeggiante a dispetto della tormentata orografia della Grecia, è identificabile con Sjaelland, la grande isola danese dove attualmente sorge Copenaghen; l’unico arcipelago al mondo che corrisponde perfettamente alle puntuali indicazioni dell’Odissea riguardo alle isole adiacenti ad Itaca si trova in Danimarca; nella più lunga battaglia dell’Iliade si combatte ininterrottamente per due giorni consecutivi, il che presuppone il fenomeno della “notte bianca” tipica delle alte latitudini; il clima dei poemi omerici è sempre freddo e perturbato, e invero l’abbigliamento pesante degli eroi corrisponde a quello delle tombe danesi dell’età del bronzo. Inoltre, in Omero ritroviamo tutti i fenomeni delle alte latitudini, dalle aurore boreali alle notti bianche, dalle tenebre del solstizio d’inverno al sole di mezzanotte, D’altronde, secondo Bertrand Russell, la civiltà micenea in Grecia aveva tratto origine dai “biondi invasori nordici che portavano con sé la lingua greca”.
Torniamo ad Atlantide, che con Omero e con il mondo nordico condivide anche altri legami: ad esempio, un passo dell’Iliade racconta che un guerriero troiano, colpito alle spalle, “esalò la vita e muggì, come muggisce il toro tratto intorno a Poseidone Eliconio mentre lo tirano i giovani” (Il. XX, 403-405). Qui il riferimento è al santuario di Poseidone, situato nel luogo che Omero chiama Helikē (da cui l’epiteto di “Eliconio”, Helikōnion, dato al dio del mare): esso è identificabile con l’attuale Helgoland (o Heligoland), una delle isole frisoni, situata nel mare del Nord, a ovest dello Jutland. Ora, Helgoland ha anche un altro nome, Fositeland, derivato da quello di un antico dio frisone, chiamato Fosite, nome che ricorda da vicino quello di Poseidone. Non solo: il corrispondente vichingo di Fosite, chiamato Forseti, che secondo gli studiosi sarebbe un dio piuttosto antico, aveva una dimora, Glitnir, ossia “splendente”, con “pareti, pilastri e colonne d’oro” che viene naturale accostare alla “bellissima casa (…) d’oro, scintillante” di Poseidone (Il. XIII, 21-22). Insomma, è senz’altro plausibile che l’attuale Helgoland (il cui nome significa “terra sacra”) si identifichi con l’omerica Helike, santuario di Poseidone.
Inoltre Glitnir, il palazzo splendente d’oro del dio nordico Forseti, corrisponde non soltanto alla casa scintillante d’oro del Poseidone omerico, ma anche allo splendido tempio costruito al centro della città capitale di Atlantide, descritto in dettaglio nel Crizia e dedicato proprio a Poseidone: “All’esterno tutto il tempio era rivestito d’argento; unica eccezione, il fastigio, il quale era d’oro. L’interno invece presentava alla vista il soffitto d’avorio, ornato tutto d’oro, d’argento e d’oricalco (…) E vi erano statue d’oro; il Dio stante in un cocchio, auriga di sei destrieri alati; la sua persona così alta da toccare il tetto con l’estremità del capo (…) In quanto all’altare, era in piena corrispondenza, per dimensioni e per prezioso lavoro, con lo splendore dell’ambiente…” (Crizia, 116d-117a).
Un altro punto di contatto fra il mito di Atlantide ed il mondo omerico sta nel passo dell’Iliade letto poco fa: infatti il toro sacrificato a Poseidone Eliconio nel santuario di Helike-Helgoland trova riscontro in un rito che si svolgeva nell’isola scomparsa. Qui infatti, al centro della città capitale di Atlantide, nel fastoso tempio di Poseidone di cui abbiamo appena letto la descrizione, i dieci re dell’isola periodicamente si riunivano per procedere ad una sorta di caccia rituale a un gruppo di tori, seguita dall’immolazione dell’esemplare catturato.
Questo sacrificio era in realtà l’introduzione al rito più solenne di tutti: i re di Atlantide, dopo un sacro giuramento con il sangue del toro sacrificato, diventavano una corte giudicante e pronunciavano sentenze, sempre all’interno del tempio di Poseidone, che così diventava un tribunale (anzi, una sorta di Corte Suprema). È stupefacente il fatto che una significativa traccia di questo tribunale sia rimasta nella mitologia nordica, con riferimento proprio a Forseti e al suo palazzo Glitnir “che è sorretto da colonne d’oro ed è coperto d’argento: Forseti vi risiede per molti giorni e regola tutte le liti” (Grímnismál str. 15). Sempre su Glitnir, “è il tribunale migliore per gli dei e per gli uomini” (Gylfaginning 32): ecco uno straordinario punto di contatto fra Atlantide e la mitologia nordica.
Notiamo a questo punto che anche il ricercatore tedesco Jürgen Spanuth, nel suo Die Atlanter, colloca Atlantide nell’area di Helgoland (con argomentazioni diverse da quelle qui accennate, il che accresce il valore di tale convergenza): egli ritiene che a portare il mito dell’isola perduta in Egitto – dove poi, secondo il Timeo, un sacerdote lo avrebbe raccontato all’ateniese Solone – siano stati i cosiddetti “popoli del mare”, a suo avviso discesi dalle coste nordeuropee.
È stato peraltro osservato che nessuna terra presenta contemporaneamente tutte le caratteristiche che Platone attribuisce alla sua mitica isola. Per superare tale difficoltà, a mio modesto avviso non è irragionevole supporre che il mito di Atlantide nasconda un antichissimo substrato, ossia il ricordo di una sede primordiale ancora più antica, precedente a Helgoland (la quale corrisponde bene ad alcune delle indicazioni che Platone ci fornisce, ma non a tutte). Ad esempio, nel racconto platonico lascia perplessi la presenza degli elefanti: ora, nell’isola siberiana di Wrangel sono stati recentemente ritrovati resti di mammut nani risalenti al 2000 a.C. Dunque gli enigmatici “elefanti” di cui parla il Crizia potrebbero essere l’ultimo ricordo dei mammut con cui in un lontanissimo passato gli Atlantidi avrebbero convissuto, presumibilmente in una terra artica o subartica; successivamente, quando il tracollo di un periodo climatico favorevole la rese inabitabile, essi scesero verso il Mare del Nord e, in una fase ancora successiva, nel Mediterraneo.
Insomma, questa ipotesi dei due substrati, quello originario artico e poi quello nordico, potrebbe spiegare molti enigmi del racconto del filosofo greco, il quale nel Crizia avrebbe privilegiato il primo dei due (penso ad esempio alle grandi montagne che circondavano la vastissima pianura centrale: è una morfologia molto particolare, che trova uno straordinario riscontro nella ricostruzione del suolo groenlandese al di sotto della calotta glaciale, come vedremo tra poco), mentre le pagine del Timeo dedicate ad Atlantide sembrerebbero più influenzate dal ricordo delle bassure del Doggerland (vi è tra l’altro la memoria dell’isola inghiottita dal mare, lasciando sedimenti e fondi melmosi che ostacolavano la navigazione). Ciò inoltre si sposerebbe molto bene sia con l’ipotizzata origine artica dei Celti (provenienti, secondo un’antica tradizione, “dalle isole a nord del mondo”), sia con le possibili relazioni, indagate ad esempio da Vittorio Castellani in Quando il mare sommerse l’Europa, tra la civiltà di questi ultimi, quella di Atlantide e le culture megalitiche, delle quali si ritrovano le tracce praticamente in tutto il mondo.
Ma dovevano esservi anche stretti rapporti con il primitivo mondo indoeuropeo, di cui il mondo omerico ha conservato l’ultima memoria nella “dimora in rovina di Ade”, che, in base a Omero nel Baltico, l’Odissea colloca in un desolato contesto artico (essa trova riscontro nella Terre Gaste delle leggende celtiche e, forse, anche nel ricordo della biblica “terra desolata” di Isaia). Invero con la fine dell’epoca felice di Crono, il signore dell’età dell’oro, il paradiso primordiale indoeuropeo, situato nell’estremo nord, si era trasformato nella gelida terra dei morti, anche se il suo ricordo idealizzato sarebbe rimasto nella memoria dei discendenti migrati verso plaghe più accoglienti: pensiamo all’omerica “pianura Elisia, ai confini del mondo (…) dov’è il biondo Radamanto e la vita per gli uomini è bellissima” (Od. IV, 563-565).
Riguardo al tracollo climatico che segnò la fine dell’età dell’oro e che forse costrinse il popolo di Atlantide a fuggire dalla sua patria originaria verso latitudini più meridionali, un indizio potremmo trovarlo nel “castigo” che Zeus meditava di infliggergli per punirlo della sua crescente malvagità (evidentemente è nel subconscio del genere umano il senso di colpa per i disastri climatici). Non conosciamo la natura di questo castigo, perché il Crizia a questo punto s’interrompe, ma, se pensiamo ad un noto passo dell’Avesta iranico – il dio Ahura Mazda avvertì Yima, primo re degli uomini, che una serie di rigidissimi inverni avrebbe distrutto il suo paese e che dopo di allora vi sarebbero stati dieci mesi d’inverno e due d’estate, ossia l’attuale clima delle regioni artiche – si può supporre che la punizione divina per le malefatte degli Atlanti sia consistita nella distruzione del loro primordiale mondo artico ad opera del gelo e del ghiaccio (forse a causa di una terrificante eruzione vulcanica, oppure per la caduta di un meteorite).
Una possibile conferma della localizzazione artica potrebbe trovarsi nel fatto che le modalità del sacrificio del toro riportate dal Crizia hanno impressionanti analogie con il sacrificio della renna nel mondo lappone: anche in questo caso, come mostrato dal professore finlandese Juha Pentikäinen, vi sono alcuni animali in un recinto chiuso, uno di essi viene catturato con dei lacci e, dopo il sacrificio, un po’ del suo sangue, versato in una coppa, viene bevuto dallo sciamano che dirige il rito. Nel Crizia al posto dello sciamano compaiono i re di Atlantide, tuttavia è indubbia l’atmosfera sciamanica, dai connotati estremamente arcaici, che aleggia attorno ai riti connessi col sacrificio e con le azioni ad esso susseguenti.
Per inciso, sarebbe suggestivo ipotizzare che la corrida spagnola (che nella sua forma attuale risale a tempi recenti) possa aver tratto le sue lontane origini proprio da un rito di questo genere: essa infatti, a ben vedere, più che ad una lotta fra l’uomo e il toro fa pensare a un vero e proprio sacrificio rituale dell’animale, dapprima incalzato e stremato dai picadores e dai banderilleros e poi finito dal matador con un colpo alle spalle, proprio come il guerriero troiano paragonato al toro eliconio. Notiamo anche che nel rito lappone della renna è importante coprire con un panno la testa dell’animale prima di ucciderlo: che in questo gesto trovi la sua lontana origine l’uso del matador di far volteggiare la muleta davanti al toro prima di colpirlo? In ogni caso, è ben noto che gli antichi abitanti della Spagna, i Celtiberi, avevano un’origine celtica e, pertanto, appartenevano ad una cultura in cui è centrale il mito della città scomparsa in fondo al mare, esattamente come Atlantide. D’altronde, per i Celti il sacrificio dei tori è l’elemento più importante del rituale.
Tutto ciò premesso, il primo grande merito del lavoro di Marco Goti è quello di proporre una collocazione originaria di Atlantide basata su solide argomentazioni, quindi molto logica e ragionevole: si tratta della Groenlandia, la grande isola nordatlantica che adesso è in gran parte coperta dai ghiacci, ma che verso l’anno mille della nostra èra, allorché fu colonizzata dai vichinghi norvegesi, venne chiamata “Terra Verde” per la grande estensione di prati che essi vi trovarono al loro arrivo.
Quella era l’epoca del cosiddetto “periodo caldo medioevale”, durato all’incirca dal IX al XIII secolo, allorché la banchisa polare si ridusse notevolmente all’interno del Mare Artico e i ghiacci galleggianti si fecero rarissimi sia intorno all’Islanda, la quale divenne allora una terra fiorente, sia dinanzi alla Groenlandia. È ragionevole supporre che le favorevoli condizioni del mare e l’assenza dei ghiacci nell’Atlantico settentrionale durante quel periodo abbiano favorito non poco le navigazioni dei vichinghi tra la Norvegia, l’Islanda e la Groenlandia. In particolare, come sottolineato dal prof. Franco Ortolani, “le paleotemperature evidenziano un marcato incremento della temperatura media, che consentiva la coltivazione dei vigneti in Norvegia”; ma la vite a quell’epoca cresceva anche in Inghilterra, mentre sulla costa occidentale della Groenlandia, rivolta verso il Labrador, attorno al XII secolo fioriva una diocesi cattolica con un vescovo vichingo (poi distrutta dal ritorno dei ghiacci in seguito all’avvento della PEG, la “piccola età glaciale”, protrattasi per diversi secoli, fino alla metà dell’Ottocento). Ora, effetti così rilevanti nel periodo caldo medioevale furono provocati da un incremento medio delle temperature del nostro continente che restò comunque al di sotto rispetto a quello che millenni prima si era verificato durante l’optimum climatico preistorico.
Invero la particolarissima morfologia “a catino” di Atlantide, con una vastissima pianura centrale oblunga circondata tutt’attorno da catene montuose, consente di identificarla immediatamente con la Groenlandia.
Questa conformazione è in grado di dare un senso logico al complesso sistema di canali che gli Atlanti realizzarono sia all’interno della pianura stessa, sia lungo il suo perimetro, dove era stato costruito un enorme fossato quadrangolare che “riceveva i corsi d’acqua che scendevano dalle montagne, faceva il giro della pianura, tornava da una parte e dall’altra verso la città e da lì andava a scaricarsi in mare” (Crizia 118d). Infatti, in quella situazione geografica così particolare, era assolutamente necessario drenare le acque che, scendendo dai monti verso il centro dell’isola, tendevano periodicamente ad allagarla! Dunque le straordinarie capacità ingegneristiche che Platone attribuisce agli Atlanti non sono assolutamente un frutto di fantasia, bensì rispondono ad una precisa finalità; inoltre sono perfettamente coerenti con le stupefacenti dimensioni di certi manufatti megalitici che tuttora non cessano di stupirci.
Un altro importante indizio a favore dell’identificazione della sede primordiale degli Atlanti con la Groenlandia è che essa corrisponde perfettamente ad una specifica indicazione di Platone, il quale definisce Atlantide sempre “isola” e mai “continente” ma, nel contempo, afferma che essa era “più grande di Libia e Asia insieme”. Per spiegare questa apparente contraddizione, occorre considerare che, mentre per noi il concetto di “grandezza” di un territorio si riferisce normalmente alla sua superficie, per gli antichi la grandezza di un’isola si identificava con la lunghezza del suo profilo costiero, grossolanamente stimabile attraverso una semplice circumnavigazione (a differenza dell’area, che richiede ben altri mezzi). Ciò lo vediamo ad esempio in Diodoro Siculo, allorché riporta la “grandezza” della Gran Bretagna identificandola con il perimetro, inteso come somma dei suoi tre lati (Biblioteca storica, V, 21), ma anche Cristoforo Colombo procede allo stesso modo per l’isola Juana, l’attuale Cuba. Insomma Platone, o meglio la sua fonte, ha confrontato la “grandezza” dell’isola Atlantide con lo sviluppo costiero della Libia e dell’Asia Minore e, in effetti, il perimetro della Groenlandia – che, non dimentichiamolo, è l’isola più grande dell’orbe terracqueo – risulta leggermente superiore allo sviluppo complessivo delle coste della “Libia” (ossia l’Africa settentrionale, da Gibilterra al Sinai) e dell’“Asia” (la Palestina, il Libano, la Siria e la costa anatolica fino al Bosforo).
L’altro grande merito della trattazione di Marco Goti, che ne costituisce a mio avviso l’aspetto più originale e suggestivo – e che conferisce alla sua teoria il requisito popperiano della falsificabilità – sta nella sua proposta, anch’essa motivata con argomenti tutt’altro che banali, di cercare nei pressi di una baia groenlandese, di cui qui non rivelo il nome per non togliere al lettore il piacere della scoperta, i resti della mitica città capitale di Atlantide e del suo grande porto, “rigurgitante di navi e di mercanti provenienti da ogni dove, con un frastuono incessante, giorno e notte, di voci e rumori diversi” (Crizia 117e). La descrizione della sua particolarissima struttura, articolata su tre zone concentriche di canali alternati con lingue di terra circolari, collegate da ponti, costituisce uno dei passi più straordinari del Crizia.
Al riguardo, sempre il Turolla si chiede se “sarà casuale (…) la coincidenza con la struttura di città messicane preistoriche (…) L’isola con una montagna circondata da anelli concentrici di mura e canali (…) viene raffigurata anche nei disegni aztechi dell’Aztlan, la patria appunto degli Aztechi. Dove è notevole la consonanza Aztlan con Atlante”. Invero della leggendaria Aztlan si è detto che si trovava da qualche parte al nord, il che potrebbe corrispondere, sia per la collocazione che per il nome, all’Atlantide groenlandese: ciò d’altronde sembra in linea con l’affermazione di Platone secondo cui l’isola perduta estendeva il suo dominio anche “su parti del continente” situato al di là del mare (Timeo 25b). Osserviamo altresì che la mitologia nordica suggerisce un singolare collegamento proprio tra la Groenlandia e gli Aztechi, una cui ben nota caratteristica era il supplizio del cuore strappato dal petto della vittima: effettivamente, nel “carme groenlandese di Atli”, Hogni viene suppliziato proprio in questo modo (Atlakvidha in Grœnlenzka, str. 21-25). La dimensione groenlandese di Atli è confermata da un altro carme dell’Edda, intitolato Atlamál in Grœnlenzko.
A questo punto, una verifica scientifica dell’eventuale presenza di resti archeologici nel sito groenlandese individuato dal Goti appare assai auspicabile. È quasi superfluo rimarcare che eventuali sviluppi positivi di una ricerca in tal senso avrebbero un impatto enorme sugli studi e le conoscenze della preistoria dell’umanità: la scoperta in quella zona di manufatti riconducibili al racconto di Platone potrebbe dischiudere un mondo completamente nuovo, con la possibilità concreta di fare luce su alcuni misteri tuttora irrisolti, quali l’improvvisa scomparsa delle civiltà megalitiche ed i loro collegamenti con l’originario mondo indoeuropeo.
Se volete sapere dov’era Atlantide, e prima ancora, le Colonne d’Ercole, posso consigliarvi questo articolo, tratto dal mio libro di prossima pubblicazione, L’ASTUTO OMERO http://pierluigimontalbano.blogspot.com/2014/08/doverano-le-colonne-dercole-e-gia-che.html . Un cordiale saluto a Felice!