Ebbene sì, dobbiamo ammetterlo, ci siamo appassionati alla teoria del Prof. Felice Vinci, grazie alla video intervista di Siusy Blady (che trovate in fondo all’articolo). La piacevole atmosfera di complicità che la conduttrice ha saputo creare, ha permesso all’ing. Vinci di esporre la Sua teoria attraverso una interessante e brillante conversazione. Ci ha conquistato, e da lì è partita una ricerca che, come sempre, ha scatenato mille interrogativi e mille collegamenti che ci ripromettiamo di proporvi poco alla volta in una serie di articoli.
Ma partiamo dall’inizio.
Il Punto di partenza
Il punto di partenza della ricerca del prof. Vinci è stato un passo di Plutarco in cui afferma:
lontana nel mare vi è un’isola, Ogigia, distante cinque giornate dalla Bretannia per chi naviga verso il tramonto…
Plutarco – che qui cita un verso dell’odissea (VII,244) – aggiunge che più oltre si trovano altre isole, poi si incontra “il grande continente che circonda l’oceano”. Qui d’estate il sole
su un arco di trenta giorni scompare alla vista per meno di un’ora a notte
Plutarco, de facie quae in orbe lunae apparet, cap XXVI
Siamo, secondo le indicazioni di Plutarco, in mezzo all’Atlantico ad un’altra latitudine, perché il fenomeno del sole che scompare solo un’ora per notte indica che siamo vicini al Circolo Polare Artico.
Proviamo a cercare un’isola nell’atlantico non lontana dalla Gran Bretagna. Le isole che più si avvicinano alle caratteristiche descritte da Plutarco sono le Isole Faeroer.
La Teoria “Omero nel Baltico”
Il reale scenario dell’Iliade e dell’Odissea è identificabile non nel mar Mediterraneo, dove dà adito a innumerevoli incongruenze (il clima sistematicamente freddo e perturbato, le battaglie che proseguono durante la notte, i fiumi che invertono il loro corso, il Peloponneso pianeggiante, eroi biondi intabarrati in pesanti mantelli di lana, isole e popoli introvabili, …), ma nel nord dell’Europa. Le saghe che hanno dato origine ai due poemi provengono dal Baltico e dalla Scandinavia, dove nel II millennio a.C. fioriva l’età del bronzo e dove sono tuttora identificabili molti luoghi omerici, fra cui Troia e Itaca.
Queste saghe furono portate in Grecia, in seguito al tracollo dell'”optimum climatico”, dai biondi Achei che nel XVI secolo a.C. migrarono verso sud, passando lungo il corso del fiume Dnepr, e giunsero al mar Nero e da lì al mar Egeo ove fondarono la civiltà micenea.
Essi ricostruirono nel Mediterraneo il loro mondo originario, in cui si erano svolte la guerra di Troia e le altre vicende della mitologia greca, e perpetuarono di generazione in generazione, trasmettendolo poi alle epoche successive, il ricordo dei tempi eroici e delle gesta compiute dai loro antenati nella patria perduta. La messa per iscritto di questa antichissima tradizione orale, avvenuta in seguito all’introduzione della scrittura alfabetica in Grecia, attorno all’VIII secolo a.C., ha poi portato alla stesura dei due poemi nella forma attuale.
Tutto questo è supportato, secondo Felice Vinci, da moltissime prove.
Le Prove
In ben 700 pagine del libro Omero nel Baltico, l’autore espone un ampio ventaglio di prove a sostegno della sua ipotesi, di cui esporremo le principali.
Incongruenze geografiche
Prima fra tutte, le incongruenze che l’autore rileva tra la geografia descritta da Omero e la conformazione delle terre mediterranee, già notata da Eratostene, come riportato da Strabone, quando afferma:
Si potranno trovare i luoghi delle peregrinazioni di Ulisse quando si rintraccerà il calzolaio che ha cucito l’otre dei venti
Geografia I,2-15
Infatti in molti hanno tentato di ricostruire la geografia dell’Omerica sebbene con risultati non convincenti e assai approssimativi. Infine, come al solito, la questione è stata liquidata dagli accademici con la vecchia e comoda tesi dell’invenzione poetica.
Le descrizioni geografiche dell’Iliade e dell’Odissea, secondo Vinci, invece, si adatterebbero alla perfezione a quelle del Nord-Europa e le incongruenze nelle localizzazioni mediterranee sarebbero dovute all’applicazione dei vecchi nomi alle nuove località, la cui situazione geografica non sarebbe stata perfettamente conforme a quella originaria, come l’uso del plurale nei nomi delle città, nell’Egeo non ha senso, mentre nel Baltico tutte le città hanno un’isola davanti che giustifica l’uso del plurale, come avvenne nell’unico caso latino, la città di Siracusa, plurale perché ha un’isola davanti ad essa, la sua “controparte”.
Così l’ubicazione di Itaca, data dall’Odissea in termini molto puntuali – secondo Omero è la più occidentale di un arcipelago che comprende tre isole maggiori: Dulichio, Same e Zacinto – non trova alcuna corrispondenza nella realtà geografica dell’omonima isola nel mar Ionio, ubicata a nord di Zacinto, ad est di Cefalonia e a sud di Leucade. E che dire del Peloponneso, descritto come una pianura in entrambi i poemi?
Una possibile chiave per penetrare finalmente in questa singolare realtà geografica ce la fornisce Plutarco, il quale in una sua opera, il De facie quae in orbe lunae apparet, fa un’affermazione sorprendente: l’isola Ogigia, dove la dea Calipso trattenne a lungo Ulisse prima di consentirgli il ritorno ad Itaca, è situata nell’Atlantico del nord, “a cinque giorni di navigazione dalla Britannia”.
Partendo da tale indicazione e seguendo la rotta verso est, indicata nel V libro dell’Odissea, percorsa da Ulisse dopo la sua partenza dall’isola (identificabile con una delle Faroer, tra le quali si riscontra un nome curiosamente “grecheggiante”: Mykines), si riesce subito a localizzare la terra dei Feaci, la Scheria, sulla costa meridionale della Norvegia, in un’area in cui abbondano i reperti dell’età del bronzo (ed anche graffiti rupestri raffiguranti navi: in effetti Omero chiama i Feaci “famosi navigatori”, ma di essi non è stata mai trovata nessuna traccia nel Mediterraneo).
Qui, al momento dell’approdo di Ulisse, si verifica un fatto apparentemente incomprensibile: il fiume (dove il giorno successivo il nostro eroe incontrerà Nausicaa) ad un certo punto inverte il senso della corrente ed accoglie il naufrago all’interno della sua foce. Tale fenomeno, rarissimo nel Mediterraneo, è invece comune nel mondo atlantico, dove l’alta marea produce la periodica inversione del flusso negli estuari. Riguardo poi al nome stesso della Scheria, osserviamo che nell’antica lingua nordica “skerja” significava “scoglio”.
Il Clima
Anche la descrizione del clima nei poemi omerici, secondo l’autore, si adatterebbe meglio alle regioni baltiche. Le condizioni climatiche descritte da Omero non si adattano all’Egeo, soprattutto tenendo conto che le vicende narrate sembrerebbe svolgersi prevalentemente in estate.
Nei poemi omerici il tempo è freddo e tempestoso, compare di frequente la nebbia e vi sono forti venti e violente burrasche. I personaggi sono spesso descritti come rivestiti da pesanti mantelli e non sono mai descritti sudare per il caldo, sebbene nel periodo al quale è comunemente attribuita la guerra di Troia (XIII secolo a.C.) la temperatura media fosse più alta dell’attuale.
La descrizione omerica si adatterebbe, invece, alle regioni baltiche nel XVIII secolo a.C., epoca nella quale Vinci colloca la guerra di Troia, quando le temperature nel nord Europa erano sensibilmente più alte delle attuali: proprio il successivo abbassamento della temperatura avrebbe in seguito costretto gli Achei ad emigrare verso sud e a trasferirsi nel Mediterraneo (scendendo, forse, per il fiume Dnepr verso il mar Nero, come molti secoli dopo avrebbero fatto i Vichinghi, la cui cultura presenta singolari affinità con quella achea): qui essi diedero origine alla civiltà micenea, notoriamente non autoctona della Grecia, la quale fiorì a partire dal XVI secolo a.C., in buon accordo quindi con le indicazioni climatiche.
Alcuni passi dei poemi omerici sono stati interpretati da Vinci come una descrizione di fenomeni tipici delle regioni nordiche. Nella grande battaglia che occupa i libri centrali dell’Iliade compare in due momenti diversi il riferimento all’ora di mezzogiorno: secondo Vinci non si tratterebbe di un “errore omerico”, come spesso sostenuto, ma la battaglia sarebbe durata due giorni consecutivi a causa della presenza del sole di mezzanotte, che permise di non interrompere i combattimenti.
Altri riferimenti al fenomeno sono considerati l‘eccezionale durata del giorno nella terra dei Lestrigoni e l’impossibilità di orientarsi di Ulisse nell’isola di Circe, in quanto non può sapere dove sorga e dove tramonti il sole.
Le somiglianze culturali
Secondo Vinci, tra il mondo descritto nei poemi omerici e quello nordico, sarebbero anche presenti numerose concordanze nelle usanze, nella mitologia e nella letteratura, perché i migratori portarono con sé epopee e geografia. Il fenomeno poi venne consolidato, nel corso dei secoli, dal progressivo affermarsi dei popoli di lingua greca nel bacino del Mediterraneo, a partire dalla civiltà micenea fino all’epoca ellenistico-romana.
Il mito – La caduta di Fetonte/ Efesto, il fabbro degli dei
Figlio di Apollo, il dio del Sole cadde dal carro del padre colpito da una folgore di Zeus, morì e le sue sorelle piansero lacrime d’ambra, ci racconta la tradizione. Secondo Vinci questo è il “timbro” che indica che siamo in pieno territorio Estone.
L’ambra estone è particolarmente pregiata, ha una chimica molto particolare, resa unica dalla “cottura” della resina fossile, che questa subì in seguito alla caduta di un meteorite nell’isola davanti a Tallin, Saaremaa, nella prima metà dell’era del bronzo. Lo sciame di meteoriti ferrosi provocarono crateri ancora oggi visibili e ampiamenti studiati.
Questo evento ci permette di pensare che il meteorite, durante la caduta, potesse essere paragonato ad un piccolo sole (figlio del Sole) e le lacrime delle sorelle potrebbero essere state le scintille che seguirono il meteorite principale.
L’ambra estone è molto presente, nelle tombe dei primi micenei, Vinci ipotizza che i gioielli fossero stati portati durante la migrazione e seppelliti con i loro possessori.
L’Ambra Baltica ancora oggi risulta la più bella, la più vecchia e la più pregiata, a differenza di altre varietà di ambra contiene più del 3% (fino all’8%) di acido succinico. Per questo motivo solo l’Ambra Baltica è utilizzata nell’industria farmaceutica.
Stabili come fanti, veloci come cavalieri
A molti studiosi non è sfuggito lo strano modo di combattere degli eroi omerici che ci ricorda quello che ci racconta Cesare quando descrive il modo di combattere dei Bretoni nel 50 a.C che riuscirono a destabilizzare il suo esercito. Egli notò che arrivavano sui carri, scendevano, e dopo aver combattuto, risalivano sui carri e svanivano
stabili come fanti veloci come cavalieri.
Le navi
Le barche, come vengono descritte nell’Iliade e Odissea, non hanno riscontri nel mondo Mediterraneo, ma sono descritte esattamente come i drekar Vichinghi, termine moderno con cui definiamo quelle imbarcazioni che avevano sulla polena un drago o un cavallo (ricordiamo che a Poseidone, il dio greco del mare, gli venivano sacrificati i cavalli).
Il drakkar erano navi che avevano particolari caratteristiche riscontrabili anche nel mondo acheo: una forma lunga (in media, attorno ai 25 metri), stretta e slanciata, e un pescaggio particolarmente poco profondo, una chiglia piatta e un albero smontabile. Queste caratteristiche conferiscono all’imbarcazione una grande velocità e le consentono la navigazione in acque di un solo metro di profondità, permettendo di avvicinarsi molto alla riva, rendendo così gli sbarchi velocissimi, erano utilissime per navigare in mare e risalire i fiumi.
Un altro vantaggio di queste imbarcazioni deriva dalla loro simmetria, avevano due prue che permettevano una inversione rapidissima. Erano pensate per navigare via fiume ed essere all’occorrenza smontate e trasportate a spalla per percorrere tratti di terra, che collegavano un fiume con l’altro nelle vaste pianure, proprio come descritto nell’Odissea.
Nel mondo dell’Iliade e Odissea viene descritta una procedura precisa: l’equipaggio alla partenza metteva la barca in mare, sollevavano l’albero, precedentemente steso in orizzontale, gli mettevano la vela e partivano. Prima di approdare, ammainavano la vela e smontavano l’albero. Queste barche con il foro per l’albero, al centro dell’asse trasversale della barca, sono tutt’ora presenti nelle isole Foerder.
Queste navi permisero, secondo Vinci, lo spostamento da nord a sud attraverso i due fiumi Dnepr e Dina di questi migratori biondi che fondarono prima la civiltà micenea e iniziano quella greca, incrociandosi con le donne locali.
I due fiumi tutt’ora molto vicini e collegati da un canale artificiale, formavano ampie zone paludose facilmente attraversabili, permettendo di partire dai territori del Nord per sfociare nel Mar Nero, e attraverso lo stretto dei Dardanelli arrivare nel Mediterraneo.
Cultura comune
Se tutto ciò fosse confermato potrebbe rappresentare un fortissimo spunto per una vera unità europea.
Avere questo retaggio culturale comune che risale all’età del bronzo potrebbe essere il punto di partenza per costruire un’Europa basata su una cultura comune.
Fonte:
– Felice Vinci, Omero nel Baltico
– Articolo del prof. Vinci su http://www.incontrostoria.it/Omero2.htm
quesito per l’ing. Vinci: originario delle mie parti è il mito del tiranno Metabo, re dei Volsci, e di sua figlia Camilla, protetta da Diana, descritta da Virgilio come una amazzone valorosa e temeraria che combatte con altre vergini guerriere e che muore in battaglia trafitta da una freccia guidata da Apollo (le somiglianze con la vita di Achille sono evidenti) che si possa ambientare anche questo mito nell’estremo nord Europa?