Mohenjo-Daro che significa tumulo dei morti è un sito archeologico nella provincia di Sindh, Pakistan.
Costruito intorno al 2.500 a.C., fu uno dei più grandi insediamenti dell’antica civiltà della valle dell’Indo e una delle prime città veramente importanti del mondo, contemporaneamente alle civiltà dell’antico Egitto, Mesopotamia, Creta minoica e Norte Chico.
Mohenjo-Daro fu abbandonato nel XIX secolo a.C. quando la Civiltà della valle dell’Indo declinò e se ne perse traccia fino agli anni ’20 quando l’archeologo R.D. Banerjee, che era stato incaricato di studiare una piccola “stupa” (tempio buddista) risalente al 300 a.C., lo riportò alla luce.
Con Mohenjo-Daro per la prima volta sono state portate alla luce vestigia della Civiltà della valle dell’Indo di cui fino ad allora si ignorava l’esistenza.
Da allora sono stati condotti importanti scavi nel sito della città che è stato designato patrimonio mondiale dell’UNESCO nel 1980.
Finora sono stati scavati 100 ettari di superficie che costituiscono soltanto un quarto circa dell’antica città, ma già da questi è possibile avere un’idea di quale fosse la vita di tutti i giorni dei suoi abitanti.
Cittadini poco religiosi ma amanti delle comodità
Come si può facilmente rilevare guardando una fotografia aerea, che consente di evidenziare chiaramente l’antico letto del fiume, la città era praticamente un’isola circondata dal fiume Indo.
Mohenjo-Daro non è stata costruita per giustapposizione di edifici innalzati nel corso del tempo ma, come le altre città della civiltà dell’Indo, rivela una urbanizzazione studiata e pianificata nel tracciato delle strade, che formano una griglia in cui almeno un viale largo 10 metri divideva la città bassa in due zone.
Il centro direzionale, che era sistemato su un’altura di una cinquantina di metri, era comunemente designato come cittadella e comprende una grande costruzione religiosa, su cui poggia la stupa buddista, le abitazioni dei sacerdoti, un Grande Bagno rituale, la fortezza, e il Grande Granaio Pubblico.
Sul braccio più piccolo del fiume, che divideva la cittadella dal resto della città, c’era il porto, indizio sicuro di intensi traffici commerciali.
Al di là del porto sorgevano i quartieri residenziali, quello commerciale e quello popolare.
La città ha un impianto urbanistico rettangolare, con strade dritte che si intersecano ad angolo retto. Le principali larghe abbastanza da permettere il passaggio di carri, le altre semplici vicoli pedonali.
Le costruzioni sono fatte di legno indurito col fuoco, di mattoni seccati al sole o cotti al forno, una caratteristica che assicurava una maggiore longevità agli edifici. Questi ultimi seguivano le regole dimensionali standardizzate nella civiltà dell’Indo, con la larghezza doppia dell’altezza, la lunghezza doppia della larghezza.
A differenza di quanto accadeva nelle città babilonesi, dove il massimo sforzo architettonico era concentrato nelle costruzioni di regge, di templi, di tombe monumentali per re e sacerdoti, mentre il resto della popolazione viveva in case primitive, a Mohenjo-Daro, gli urbanisti e gli architetti hanno evidentemente fatto il massimo sforzo per rendere confortevole la vita agli abitanti.
Se si eccettuano quella su cui i buddisti hanno costruito la loro “stupa” e il Grande Bagno, non ci sono altri edifici religiosi in città, che in compenso è stata dotata di un perfetto sistema di fognature.
Tutte le abitazioni, anche le più modeste, erano dotate di gabinetto privato, con scarico nella fognatura principale, che passava al centro o ai lati della strada.
Le case più modeste erano ad un piano, mentre le più grandi come il cosiddetto Palazzo del Governatore, si elevavano per due o tre piani ed erano dotate di speciali pozzi/ cisterne a torre che portavano l’acqua direttamente ai piani superiori.
Dai reperti è emerso che mentre gli abitanti delle campagne circostanti si dedicavano all’agricoltura e all’allevamento del bestiame, i cittadini erano artigiani e soprattutto commercianti abilissimi che si spingevano fino in Mesopotamia, via mare e fino alla catena dell’Himalaya, via terra.
Gli scavi e i reperti giunti fino a noi
Durante gli scavi sono stati ritrovati, una gran quantità di vasellame di tutte le dimensioni, di notevole fattura, sia dal punto di vista estetico che tecnico, numerosi utensili, molti oggetti personali come specchi di bronzo, pettini d’osso e un’infinità di collane, bracciali, fibbie di pietra dura, rame o terracotta.
Sono stati trovati anche qualcosa di molto simile a giochi e passatempi, che ricordano molto i giochi degli scacchi o il mehen egizio
Tra i reperti rinvenuti particolarmente numerose e raffinate sono le sculture di tutte le dimensioni in terracotta, in pietra e in bronzo.
Le più famose sono la ballerina in bronzo e la cosiddetta prete-re in pietra, che è diventata il simbolo di Mohenjo-Daro.
I Sigilli costituiscono una caratteristica predominante della cultura di Mohenjo-Daro e della Valle dell’Indo in generale. Ne sono stati trovati in grande quantità e sono di eccellente fattura.
Si tratta di tessere di pietra solitamente quadrate o rettangolari, che recano scolpite in negativo figure di animali, umanoidi o semplicemente alcuni caratteri alfabetici.
Premendoli sulla creta umida si otteneva l’immagine in positivo, come una specie di firma, o garanzia che probabilmente i commercianti apponevano prima della spedizione.
Il mistero della scrittura
Purtroppo la scrittura non è stata ancora decifrata, molti studiosi stanno ricercando.
Lo studioso ungherese Guillaume De Hevesy, nel 1932, identificò invece una curiosa coincidenza, una convergenza che sembrava legare la scrittura Harappa con quella di una civiltà distante ben 20.000 km e separata da quasi 3.500 anni di storia. Era il Rongorongo dell’Isola di Pasqua, situata nell’estrema parte orientale dell’arcipelago polinesiano, che dimostrò possedere una somiglianza impressionante con la scrittura della Valle dell’Indo.
Anche in questo caso tale scrittura risulta, ad oggi, indecifrata e, per quanto siano stati compiuti numerosi sforzi per rompere il suo silenzio, ogni tentativo, come nel caso dell’Indo, è stato vano.
Concludendo
Tutti gli elementi che abbiamo esaminato fino ad ora concorrono a fornirci un quadro di una città molto grande per l’epoca, visti i suoi probabili 30.000 abitanti, prospera, ben organizzata dal punto di vista urbanistico e sociale, potente.
Una città che dopo un periodo di fulgore, ne ha conosciuto uno di decadenza, fino a costringere i suoi abitanti ad abbandonarla, ma bruscamente interrotto da una tragedia umana….
Ma questa è un’altra storia, ops, un altro articolo!
Fonti:
Blog di Enrico Baccarini
David W.Davenport e Ettore Vincenti, 2000 a.C distruzione atomica – La misteriosa scomparsa di una città titanica nella Valle dell’Indo – Enigma Edizioni