Gli esperti di edilizia di oggi si chiedono come fare un calcestruzzo duraturo come quello usato negli edifici romani. A distanza di 2.000 anni, molte delle infrastrutture costruite dai romani, in particolare quelle portuali come moli, frangiflutti e porti, sono ancora in piedi e potrebbero rimanerlo per altri millenni ancora.
Una caratteristica invidiabile del calcestruzzo usato dai Romani è che diventa sempre più resistente con il passare del tempo tanto che Plinio il Vecchio nel suo Naturalis Historia diceva:
“Diventa una massa unica in pietra, inespugnabile alle onde e ogni giorno più forte“.
A differenza dei conglomerati di oggi, in cui sono presenti materiali “inerti”, i cementi utilizzati dai romani erano “attivi” e sviluppavano reazioni chimiche che, grazie al sale dell’acqua di mare, con il passare del tempo erano in grado di rafforzare i manufatti.
Il segreto della millenaria durevolezza del cemento di epoca romana risiede in una reazione chimica che avviene in presenza dell’acqua di mare, che, legandosi con le ceneri di origine vulcanica, produce nuovi minerali in grado di rafforzarlo ulteriormente legandone le molecole.
Gli ingredienti principali della malta in questione sono la pozzolana (un miscuglio di ceneri vulcaniche e limo) e la calce, in cui venivano inseriti frammenti di tufo, mattoni e cocci per formare il cementizio, ovvero uno dei primi esempi di calcestruzzo della storia.
Tra il 2002 e il 2009 sono state condotte delle ricerche da Marie Jackson, geologa dell’University of Utah, riportate in uno studio pubblicato integralmente su American Mineralogist. In questa ricerca sono stati analizzati i campioni provenienti da carotaggi effettuati in alcuni pezzi di conglomerati dell’antico Portus Cosanus presso Ansedonia, che hanno permesso di ricostruire la chimica alla base del processo.
Secondo le conclusioni degli autori, l’acqua marina penetrava nei pontili e nei frangiflutti in calcestruzzo, dissolvendo gli elementi costitutivi della cenere vulcanica, permettendo la crescita di nuovi minerali, tra cui la tobermorite alluminosa e la phillipsite. In particolare, la tobermorite alluminosa ha una composizione ricca di silice, e forma cristalli simili a quelli delle rocce vulcaniche, la cui forma stratificata rinforza la matrice del cemento. L’interconnessione di questi diversi strati ha come esito finale l’aumento della resistenza del calcestruzzo alla frattura.
I cristalli di questo raro minerale si formano nelle particelle di calce per effetto della reazione pozzolanica in condizioni di alte temperature: in laboratorio Jackson e colleghi sono riusciti a ottenerlo solo in quantità limitate. Il problema è che il processo pozzolanico degli antichi Romani era rapido. Qualche fattore deve quindi aver causato la crescita di questi minerali a bassa temperatura e molto tempo dopo che il calcestruzzo si era ormai solidificato.
Questa scoperta aggiunge un nuovo tassello alla conoscenza delle tecniche costruttive e dei materiali dell’antichità, anche se il suo sfruttamento risulta oggi ancora difficile e richiederà ulteriori studi e ricerche che potrebbero richiedere molti anni (e anche investimenti dal ritorno sul medio periodo).
Un analogo moderno del calcestruzzo romano è il cosiddetto calcestruzzo di Portland, in cui al cemento sono mescolati sabbia e ghiaia. Questi aggregati devono però essere di materiale inerte: in caso contrario, si verifica la cosiddetta reazione alcali-silice, che nel lungo termine frattura il calcestruzzo.
Se si pensa che la produzione di calcestruzzo moderno contribuisce a produrre almeno il 7% dell’anidride carbonica, l’idea di poter realizzare nuove opere attraverso la formula dei romani “a basso impatto ambientale” diventa una possibilità da tenere in considerazione.
Oggi ad esempio, cita la ricerca della Jackson, il cemento di Portland utilizzato per costruire dighe e impianti si sbriciola nel giro di decenni ed è realizzato in forni a temperature elevate che emettono CO2. Quello dei Romani, combinazione di cenere, acqua, calce viva dura ancora da oltre 2.000 anni. “A differenza ad esempio del cemento di Portland, in quello romano non si verificano crepe” spiega Jackson.
Ora i ricercatori, insieme all’ingegnere geologico Tom Adams, vogliono provare a sviluppare la ricetta romana ed applicarla a future costruzioni marittime. Un’idea che potrebbe essere applicata ad esempio alla laguna di Swansea in Gran Bretagna dove si pensa di sfruttare l’energia delle maree: “Un prototipo di cemento romano potrebbe rimanere intatto per secoli permettendo, tra l’altro, di recuperare anche i costi sostenuti per la costruzione“.
Fonti:
http://www.lescienze.it/news/2017/07/05/news/minerali_segreto_calcestruzzo_romano-3591389/
https://pubs.geoscienceworld.org/ammin/article-lookup/102/7/1435
https://ceramics.onlinelibrary.wiley.com/doi/abs/10.1111/jace.12407