I loro nomi sono stati resi eterni dai grandi narratori del mondo antico, primi tra tutti Omero ed Erodoto, che descrissero le gesta di Pentesilea, di Ippolita, di Antiope o di Derinoe: le Amazzoni, le feroci guerriere che cavalcavano e combattevano come gli uomini, indossavano i pantaloni e si facevano mutilare il seno per usare al meglio l’arco.
Un popolo nomade
Una ricercatrice della californiana University of Stanford, affascinata dal tema, ha cercato il concreto fondamento del mito delle Amazzoni; e lo ha fatto studiando i popoli nomadi che erano confinanti degli antichi greci a partire dall’VIII secolo con l’espansione verso il mar Nero, i quali costituirono un modello di confronto con il “diverso”, il barbaro parlante una lingua incomprensibile.
Ad essi venne attribuito il nome di Sciti; questi popoli di origine asiatica, in effetti, furono “muti” non avendoci lasciato testimonianze scritte della loro storia ragion per cui ci è possibile conoscerli soltanto attraverso la mediazione degli ellenici, di Erodoto in particolar modo. Eccezionali cavalieri, maestri nell’allevamento equino, e impareggiabili arcieri, gli Sciti sono protagonisti di diversi resoconti etnografici dell’età antica.
Donne con i pantaloni e tatuate
Il suo studio ha previsto anche una particolare attenzione all’archeologia e, nello specifico, ai corpi mummificati e agli scheletri rinvenuti negli anni nel vasto territorio che fu dimora degli Sciti (e conservati per lo più al museo dell’Hermitage di San Pietroburgo): tra questi, alcuni appartennero a donne che furono sepolte assieme al proprio cavallo e alle proprie armi, i cui corpi recano ancora le ferite ricevute probabilmente durante una battaglia.
Un dettaglio estremamente affascinante è stato svelato grazie alle telecamere a infrarossi utilizzate da alcuni ricercatori le quali hanno consentito di individuare alcuni tatuaggi, ritraenti cervi e disegni geometrici che “sembrerebbero riprendere i modelli dipinti sulle figure delle Amazzoni nei vasi degli antichi greci”.
Inoltre, la studiosa ha raccolto e verificato una serie di storie, decisamente meno note dell’Iliade di Omero o delle Storie di Erodoto, che mostrano come il tema della donna guerriera avesse affascinato anche altre culture, partendo dall’Asia Minore ed irraggiandosi verso la Persia, l’Armenia, l’area del Caucaso, la Persia e giungendo fino all’Asia Centrale e addirittura alla Cina. Insomma, delle vere donne guerriere esistettero e furono contemporanee dei greci dell’età arcaica.
Esse vestivano come gli uomini, indossando i caratteristici pantaloni degli Sciti che erano funzionali alle loro abitudini che prevedevano lunghe permanenze a cavallo.
La guerriera vichinga
In un cimitero vichingo in Norvegia, sono stati ritrovati i resti di un corpo femminile circondati da armi: partendo dal teschio, che era adagiato su uno scudo, con le ultime tecnologie per il riconoscimento facciale gli scienziati britannici hanno dato vita alla ricostruzione realistica di un volto indurito di una combattente vissuta più di 1.000 anni fa, che mette in discussione i presupposti di lunga data secondo cui gli eroi guerrieri vichinghi come Erik il Rosso hanno lasciato le loro donne a casa.
La ricostruzione si basa su uno scheletro trovato in un cimitero vichingo a Solør, in Norvegia, e ora conservato nel Museo di Storia Culturale di Oslo. I resti erano già stati identificati come femminili, ma il suo sito di sepoltura non era stato considerato una tomba di guerriero “semplicemente perché l’occupante era una donna”, afferma l’archeologa Ella Al-Shamahi.
Mentre lavoravano per ricostruire il suo viso per un pubblico del 21° secolo, gli scienziati hanno scoperto che non solo la donna è stata sepolta in mezzo a un’impressionante collezione di armi mortali, tra cui frecce, una spada, una lancia e un’ascia, ma ha anche subito una ferita alla testa coerente con una ferita da spada, che si è cicatrizzata, poiché l’esame scientifico ha rivelato segni di guarigione. Per l’archeologa Al-Shamahi questa è la prova evidente che si tratti di una guerriera “di una donna vichinga con una ferita da battaglia“.
La dott.ssa Caroline Erolin, docente presso il Centre for Anatomy and Human Identification dell’Università di Dundee, che ha lavorato alla ricostruzione, ha affermato che il viso è stato costruito anatomicamente lavorando dai muscoli e dalla pelle a strati. La ricostruzione risulta non essere accurata al 100%, ma sarebbe sufficiente per essere, ipoteticamente, riconosciuta da qualcuno che la conosceva bene nella vita reale.
Prossimamente l’equipe di esperti guidati dalla dottoressa Erolin, presenterà un documentario con i passi della scoperta e la successiva ricostruzione al National Geographic.
Infatti la nuova tecnologia ha anche ricreato la tomba, mostrando come le armi erano posizionate intorno allo scheletro.
Inoltre nel documentario curato da National Geographic, la dottoressa Al-Shamahi viaggerà attraverso la Scandinavia per esaminare i siti di sepoltura vichinghi, usando tecniche di visualizzazione per ricostruire i loro contenuti, dove sottolineerà che tali scoperte stanno “trasformando” la nostra conoscenza.
Tra gli altri scheletri nella nuova ricerca c’è anche il “Birka Warrior”, che è stato scoperto in Svezia oltre un secolo fa, circondato da una scorta di armi, tra cui frecce. Fino a poco tempo fa, si presumeva che fossero i resti di un uomo, ma la scienza da poco ha dimostrato che era una donna e questo confermerebbe ulteriormente l’ipotesi di Donne guerriere con archi … (a cavallo?! 😉 )
Il professor Neil Price, esperto di vichinghi e consulente archeologico del progetto, ritiene che i risultati mettono a dura prova le ipotesi: “Ci sono così tante altre sepolture nel mondo vichingo … Non mi sorprenderebbe affatto se trovassimo più donne guerriere. ”
Viking Warrior Women va in onda su National Geographic il 3 dicembre alle 20:00.
Fonte:
The Guardian, 2 novembre 2019
http://scienze.fanpage.it/la-verita-dietro-il-mito-delle-amazzoni